da: Corriere della Sera
Banche
salvate, bail-in, risparmi in fumo
La
cronaca di un mese molto difficile
Dal
crac (non improvviso) di quattro banche territoriali all’evidenza che, da
adesso in poi, anche i privati possono pagare per queste crisi. Soprattutto se
hanno investito in azioni e prestiti subordinati degli istituti in difficoltà
di Giuditta
Marvelli e Marco Sabella
Che
cosa è accaduto alle 4 banche
Cassa di Risparmio di Ferrara, Banca delle
Marche, Banca Etruria e CariChieti erano da tempo in difficoltà. Da anni si
dibattevano tra commissari straordinari e sofferenze eccessive. Una banca
«soffre» quando lo squilibrio tra attivi e passivi diventa ingestibile: quando
i soldi prestati ai clienti non vengono restituiti. Sono banche storiche, molto
radicate sul territorio: una caratteristica con molte notazioni positive per il
rapporto stretto che si crea con i clienti privati e con le imprese. Anche se,
in questa vicenda, risparmiatori e funzionari in buona fede si possono definire
vittime della fiducia reciproca e nella banca.
Il
decreto del 22 novembre 2015
Tre settimane fa il governo ha firmato un
provvedimento per risolvere la
questione delle quattro banche prima della fine
dell’anno. Dal primo gennaio 2016 infatti entrano in vigore nuove regole sui
salvataggi degli istituti di credito ancora più stringenti. Il provvedimento ha
stabilito la «rinascita» delle banche con il titolo di Nuova davanti ai vecchio
nome e la creazione di un veicolo (bad bank) dove sono stivati gli asset
«tossici» di tutte e quattro.
Non
è un bail in, ma gli assomiglia
L’operazione varata dal governo è ibrida.
Non è un bail in, ma un anticipo di bail in. Che cosa significa? Bail in vuol
dire «garanzia interna» e, nel caso dei salvataggi bancari, è il contrario di
bail out, vale a dire l’impegno del sistema (e quindi dei soldi pubblici) per
sostenere le banche in difficoltà. L’Unione bancaria europea mira ad evitare il
più possibile l’intervento degli Stati membri in caso di crac degli istituti.
La strada scelta dal governo italiano contempla l’utilizzo del Fondo di
risoluzione che metterà sul piatto 3,6 miliardi, di cui 1,8 andranno a
ricapitalizzare le Nuove banche e 1,7 a coprire le perdite originarie. Ma
l’entrata in campo di questo strumento — alimentato dalle banche nazionali — ha
automaticamente fatto scattare la «condivisione degli oneri». L’aiuto del
sistema, dicono le regole dell’Unione, arriva solo dopo che azionisti ed
obbligazionisti subordinati (cioè i prestatori di denaro che hanno accettato un
rischio maggiore a fronte di una cedola molto più alta della media) hanno
partecipato al salvataggio.
La
tragedia dei «piccoli»
Tra gli azionisti e gli obbligazionisti
subordinati — questo è il lato più tragico — ci sono parecchi privati. Secondo
un conto approssimativo i piccoli azionisti sarebbero 130 mila e gli
obbligazionisti 10 mila. Le loro storie, tra cui il terribile suicidio del
pensionato di Civitavecchia, raccontano ancora una volta l’impossibilità del
sistema finanziario nazionale e globale di proteggere in ogni occasione in modo
efficace i più deboli. Il sistema è fatto di norme, intermediari e privati
risparmiatori. Le prime sono complesse, i secondi provano ad applicarle (non
sempre bene) cercando di fare business, i terzi sperano di investire i loro
soldi con profitto su un mercato sempre più grande e più difficile da capire.
Per acquistare prodotti finanziari chiunque deve sottoporsi ad un questionario
(Mifid) che dovrebbe misurare le sue conoscenze dei mercati e la sua effettiva
possibilità di accettare un certo grado di rischio. O nessun rischio.
La
disputa con la Commissione Europea
Le autorità italiane e quelle di Bruxelles
hanno avuto una discussione (ancora in corso) sulla vicenda. Bankitalia dice di
aver cercato (senza successo) di percorrere una via di salvezza che avrebbe
lasciato fuori gli azionisti e gli obbligazionisti. La Commissione europea
risponde che l’Italia ha scelto autonomamente tra le opzioni sul tavolo e che
comunque le regole europee impongono il «burden sharing» — l’azzeramento del
capitale, anche di quello subordinato rappresentato dalle famigerate
obbligazioni — se si utilizzano fondi pubblici.
Subordinati,
che cosa erano e che cosa sono d’ora in poi
I risparmiatori che hanno sottoscritto in
passato i prestiti subordinati delle banche, in linea teorica, avrebbero dovuto
essere consapevoli dei rischi che correvano, ma è anche vero che nella pratica
non era mai accaduto che questa categoria di emissioni venisse chiamata a
ripianare le perdite in conto capitale della banca. I titoli più rischiosi, le
obbligazioni Upper Tier 1 avevano la facoltà di non pagare la cedola ed erano
emesse senza una scadenza prevista di rimborso, al punto che venivano chiamati
«perpetuità». Esistevano delle opzioni che permettevano alla banca di
«richiamare» il capitale e di rimborsare gli obbligazionisti. Le nuove norme
sulla risoluzione delle crisi bancarie (bail-in) hanno in parte modificato le
caratteristiche delle obbligazioni subordinate. Adesso questi titoli in caso di
grave difficoltà della banca sono considerati alla stregua del capitale di
rischio (le azioni) e possono di conseguenza vedere ridotto o azzerato il
valore nominale di rimborso. Nella nuova suddivisione dei prestiti bancari si
distinguono le obbligazioni Additional tier 1 (AT1), che sono ancora «perpetue»
ma in cui la discrezionalità del pagamento della cedola è assoluta, un po’ come
avviene nella distribuzione dei dividendi per i titoli azionari. Queste
emissioni, rendono attualmente il 6-7% quando la banca è solida e ben
capitalizzata. C’è poi la categorie delle obbligazioni Tier2, che hanno una
durata di rimborso prestabilita e in cui i sottoscrittori subiscono una
decurtazione del capitale solo se i titoli AT1 non sono stati sufficienti per
ripagare le eventuali perdite. Oggi le migliori obbligazioni Tier2, sulla
scadenza dei 10 anni, offrono rendimenti compresi fra il 2,5 e il 2,9% (il Btp
a dieci anni è all’1,54%). Infine c’è la categoria teoricamente sicura del
senior debt, in cui sia il pagamento della cedola che la restituzione del
capitale sono garantiti. In questo caso per emissioni di buona qualità (banche
solide) a cinque anni il rendimento lordo è di circa l’1%. Attenzione però: in
caso di bail in particolarmente drammatici anche i titoli senior debt
potrebbero essere chiamati a pagare il conto.
Chi
pagherà dal primo gennaio in caso di crac
Da gennaio 2016, in caso di fallimento , la
classifica della condivisione del conto da pagare metterà in prima fila, come è
accaduto in questi giorni, azionisti e obbligazionisti subordinati. In seconda
battuta, se i soldi non bastassero e anche il sostegno pubblico concesso fosse
insufficiente, potrebbero essere coinvolti anche gli obbligazionisti senior e
la parte eccedente i 100 mila euro sui conti correnti e certificati di
deposito. Sono tutelati in ogni caso, quindi, solo i conti correnti sotto i 100
mila euro. Non c’entrano perché non sono attivi della banca, il contenuto delle
cassette di sicurezza, fondi e titoli (Btp, azioni e così via). Purché non
siano, appunto, emessi dalla banca in difficoltà.
Che
cosa succede adesso
Il dibattito sulla possibilità e sui modi
per aiutare i risparmiatori coinvolti è ancora aperto. Certamente se, come
sostengono i legali che stanno ascoltando le storie delle persone coinvolte, i
profili Mifid sono stati gestiti in modo troppo automatico e i contratti non
identificano in modo chiaro la natura subordinata dei bond, il ricorso alla
giustizia è un’ opzione da valutare. Uno degli effetti immaginabili di questa
vicenda è la futura impossibilità (o quasi) per le banche di vendere ai privati
questa tipologia di titoli.
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