venerdì 18 dicembre 2015

Luigi Guiso: Salvataggi delle banche e lezioni per il futuro



da: http://www.risparmiamocelo.it/

Le perdite subite dai risparmiatori come conseguenza della risoluzione della crisi di quattro banche italiane secondo le norme consentite dalla corrente regolamentazione europea sollevano molti quesiti sui presupposti e le implicazioni del nuovo meccanismo. E richiamano l’attenzione sulle responsabilità ancora maggiori che graveranno sui risparmiatori/clienti quando, a partire da gennaio, saranno chiamati a rispondere direttamente con i loro investimenti per le perdite generate dalla banca fallita. Le polemiche di questi giorni e quelle che seguiranno nei prossimi, con gli inevitabili scarichi di responsabilità e di “caccia al colpevole”, rischiano però di far perdere di vista gli aspetti importanti della questione. Per questo è cruciale mettere un po’ di ordine nel dibattito, isolando gli elementi chiave.

Che cosa è accaduto
Le quattro banche italiane sono fallite principalmente perché mal gestite. La Banca d’Italia, dopo averle commissariate, facendo emergere le ingenti perdite accumulate ed estromettendo gli amministratori, ha prima cercato di venderle sul mercato, senza successo, e ha poi avviato la procedura di risoluzione. La tempistica scelta – risolvere le quattro banche entro il 2015 - è stata dettata dal
tentativo di evitare di doverlo fare nel 2016, quando la nuova normativa europea sul bail in sarebbe entrata in vigore. Nel 2015 le regole di risoluzione delle crisi bancarie (note come BRRD), in vigore dal primo gennaio di questo anno, impongono comunque che non solo gli azionisti (come è ovvio) ma anche i detentori di obbligazioni subordinate della banca concorrano a coprirne le perdite. Posporre la risoluzione al 2016 avrebbe comportato che anche i detentori di obbligazioni ordinarie emesse dalle quattro banche fallite, e i depositanti con conti superiori a 100 mila euro, avrebbero subito perdite.

Perché il nuovo meccanismo?
Le finalità del nuovo meccanismo (tanto quello in vigore dal gennaio del 2015, quanto quello che entrerà in vigore da gennaio 2016) sono ben illustrate dalla dichiarazione del commissario europeo Jonathan Hill, quando nel dicembre del 2014 lo annunciò: “d’ora in poi, saranno gli azionisti delle banche e i loro creditori che sopporteranno i costi e le perdite di un fallimento e non più i contribuenti” (per creditori si intendono gli obbligazionisti e i depositanti con depositi sopra 100 mila euro). La sua filosofia è che se azionisti e obbligazionisti rispondono direttamente, con i loro investimenti, delle perdite della banca, staranno più attenti a dove investono, togliendo i soldi dalle banche rischiose, trasferendoli a quelle più solide e quindi nel complesso accrescendo la stabilità del sistema finanziario. Nel passato, secondo l’ispirazione di chi ha disegnato il nuovo sistema, questa disciplina mancava perché le perdite venivano distribuite tra tutti i contribuenti, mettendole a carico del bilancio pubblico. Pertanto i contribuenti pagavano anche per rischi che non avevano assunto direttamente. Ovviamente il risparmiatore è anche contribuente, per cui alla fine la differenza tra il vecchio e il nuovo sistema è che con il vecchio il costo del fallimento di una banca viene distribuito tra tutti i contribuenti, con il nuovo solo tra un sottoinsieme – quelli che sono creditori della banca fallita. Il primo sistema offre molta assicurazione ai risparmiatori, il secondo molto poca. In cambio della minor assicurazione si spera di ottenere dai risparmiatori più vigilanza sulla scelta della banca, meno fallimenti e meno costi per l’erario.   

Qualcosa non funziona?
Proteggere il contribuente dal costo del fallimento di una banca, esponendo invece il risparmiatore a questo rischio, per rendere le banche più prudenti e mettere al riparo i bilanci pubblici, è la scelta fatta dai legislatori europei (si badi, inclusi quelli italiani). Ma le banche diventano più prudenti e il sistema finanziario più stabile se i risparmiatori sono effettivamente in grado di riconoscere e prezzare il rischio della banca; i bilanci pubblici sono effettivamente protetti se i governi sono in grado di resistere alla pressione per salvare i clienti più di quanto siano in grado di resistere alla pressione di salvare una banca fallita. Vi sono ragioni per sollevare dubbi su entrambi i fronti, e il caso delle quattro banche italiane ne offre un buon esempio.

Sul primo punto, buona parte dei creditori delle banche non hanno la capacità di riconoscere il rischio dello strumento offerto loro dall’intermediario. I detentori di obbligazioni, almeno nel mercato italiano dove le obbligazioni bancarie sono molto diffuse, sono investitori al dettaglio con scarsa consapevolezza e conoscenza finanziaria. I detentori di depositi superiori a 100 mila euro possono essere imprese relativamente piccole. Tra gli azionisti ci sono anche i detentori di quote di banche popolari, che spesso hanno caratteristiche simili - come preparazione finanziaria - a quelle degli obbligazionisti. In buona sostanza, stiamo parlando dei normali clienti al dettaglio delle banche. E non ho molti dubbi che se chiedessimo a un campione di clienti bancari la differenza tra un’obbligazione subordinata e un’obbligazione ordinaria la stragrande maggioranza non ne avrebbe la più pallida idea, per non parlare del rischio effettivo connesso all’una e all’altra. Ricordo che (come documentato in un’indagine della Banca d’Italia) la metà delle persone non sa neppure identificare il saldo del proprio conto quando gli viene mostrato. Se i risparmiatori sottoscrivono questo tipo di strumenti, nella maggior parte dei casi è perché sono stati loro attivamente proposti e illustrati come strumenti solidi, con poco rischio e buon rendimento. Così è stato per le obbligazioni subordinate delle quattro banche liquidate, come emerge da una intervista su Repubblica al direttore di una filiale della Banca dell’Etruria: “Dal 2013 le emissioni [di obbligazioni subordinate] si erano impennate e la priorità era piazzarle per salvare la banca, questo lo capisco solo ora”. Salvare la banca spostando il rischio sui clienti, che non hanno la capacità di riconoscerlo. Al punto che rimasero indifferenti anche alle lettere mandate dalla banca, dove si informava che il profilo di rischio era nel frattempo cambiato.

Sul secondo punto, se una massa ingente di risparmiatori perde i propri risparmi a seguito del fallimento di una banca, è difficile per un governo lasciarli sul lastrico. È quello che sta avvenendo in Italia. La pressione politica perché il governo intervenga per tamponare le perdite subite dai clienti delle quattro banche è tanto maggiore, quanti più clienti sono coinvolti e quanto più rilevanti sono le perdite subite, in proporzione alla ricchezza di ciascuno. Fallimenti bancari, anche di banche piccole, coinvolgono decine di migliaia di persone; se la risoluzione delle quattro banche fosse avvenuta nel 2016, anziché nel 2015, sarebbero state investite circa un milione di persone. È inoltre molto probabile che le perdite pro-capite siano ingenti (relativamente ai propri risparmi): i risparmiatori hanno portafogli molto concentrati, il piccolo risparmio è detenuto in una singola banca, spesso in uno o due strumenti, come per esempio un’obbligazione bancaria. Quindi chi perde, tipicamente perde il risparmio di una vita. Difficile che un governo possa resistere a queste pressioni. Quello che si voleva evitare con il nuovo meccanismo – il coinvolgimento nelle perdite del contribuente –esce dalla porta ma rischia di rientrare dalla finestra.

In conclusione, il nuovo meccanismo promosso da Jonathan Hill si basa su un presupposto molto probabilmente sbagliato – che i risparmiatori siano in grado di identificare il rischio delle banche e prezzarlo correttamente se solo venisse dato loro l’incentivo per farlo. Alcuni sono in grado di farlo, la maggior parte no. L’implicazione è che l’effetto sulla stabilità finanziaria delle nuove regole di risoluzione sarà limitato, mentre il rischio in capo ai risparmiatori sarà parecchio accresciuto. Alternativamente, i risparmiatori saranno comunque salvati tramite intervento pubblico, ma questo avverrà sull’onda della protesta e con minore trasparenza per districarsi tra le nome europee che lo vietano. Penso che con il tempo occorrerà rivedere questo meccanismo.

Che cosa fare
Nel frattempo, con il nuovo meccanismo bisognerà convivere perché non si cambia una legge come quella il giorno dopo la sua approvazione; e non possiamo cambiarla unilateralmente perché norma comunitaria. Vi sono quattro cose che come paese però possiamo e dovremmo fare per minimizzare le conseguenze negative del nuovo sistema.
1. Gestire la transizione
Il nuovo sistema di risoluzione delle crisi è a tutti gli effetti un cambio di regime. I cambi di regime presuppongono una fase di transizione, per dare tempo alle persone di adattarsi. In questo caso la transizione significa informare i risparmiatori delle loro nuove responsabilità. Questa informazione non c’è stata, né in Italia né in Europa. L’adozione del nuovo modello di risoluzione è stata eccessivamente rapida: approvata a gennaio del 2015 verrà implementata a gennaio del 2016. Occorre predisporre un piano da adottare rapidamente per informare i risparmiatori delle implicazioni delle nuove regole. Un punto analogo lo fa Angelo Baglioni su lavoce.info.  
2. Agire sui comportamenti delle banche
La nuova normativa sulla risoluzione delle crisi deve essere l’occasione per porre fine al problema dei collocamenti di obbligazioni bancari come lo abbiamo conosciuto finora: direttamente presso la clientela, con il cliente spesso spinto verso l’acquisto che massimizza le commissioni dell’intermediario, non quello che è il miglior investimento per lui. È un fatto noto e documentato dalla Consob che un’obbligazione emessa da una banca e collocata direttamente presso la propria clientela tende a rendere (molto) meno della stessa obbligazione collocata presso investitori sofisticati. E spesso rende meno di un titolo del debito pubblico, che non ha rischio di fallimento comparabile a quello di una banca ed è facilmente liquidabile. Questa è evidenza chiara e inequivoca che i risparmiatori al dettaglio non sanno riconoscere e prezzare il rischio della banca, contrariamente a quanto implicitamente assunto nel nuovo meccanismo di risoluzione. Ma allora bisogna prevedere che le obbligazioni bancarie siano inizialmente collocate esclusivamente presso gli investitori istituzionali, e entrino nei portafogli degli investitori al dettaglio solo attraverso il mercato secondario o indirettamente, via l’acquisto di quote di fondi.
3. Pensare a una authority dedicata
Il problema della “responsabilizzazione” delle banche è ovviamente più vasto del caso obbligazioni; non è peraltro specifico all’Italia, ma riguarda tutti i paesi sviluppati che hanno conosciuto un forte sviluppo nell’uso dei servizi finanziari da parte dalle famiglie. Regolare tale uso richiede un mix intelligente di paternalismo e di libera scelta, di regole e di discrezionalità. Ciò è più facile da raggiungere con un’autority specifica dedicata alla protezione del risparmiatore. Gli Stati Uniti hanno lanciato questo modello, con il Consumer Financial Protection Bureau. Dovremmo imitarlo.
4. Rivedere ancor di più la governance delle banche
Le recenti crisi delle banche italiane sono il riflesso di gravi carenze gestionali a loro volta causate da una cattiva struttura proprietaria e spesso da interferenze politiche. Così è stato con il Monte Paschi e con Carige, entrambe controllate da fondazioni bancarie. Due delle quattro banche fallite avevano una fondazione dietro, le altre sono due popolari. La riforma delle banche popolari è un passo utile per promuovere una migliore struttura proprietaria. L’alleggerimento della presenza delle fondazioni un altro passo nella giusta direzione. Ma è troppo timido. Occorre un programma per separare definitivamente banche e fondazioni.  
Le crisi sono eventi dolorosi per quelli che ne vengono travolti. Ma spesso offrono l’occasione per trovare il coraggio per superare convenienti resistenze. Chissà che questa non sia la volta buona. 

 Luigi Guiso
 Axa Professor of Household Finance (Eief)

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