da: http://www.risparmiamocelo.it/
Le perdite subite dai risparmiatori come
conseguenza della risoluzione della crisi di quattro banche italiane secondo le
norme consentite dalla corrente regolamentazione europea sollevano molti
quesiti sui presupposti e le implicazioni del nuovo meccanismo. E richiamano
l’attenzione sulle responsabilità ancora maggiori che graveranno sui
risparmiatori/clienti quando, a partire da gennaio, saranno chiamati a
rispondere direttamente con i loro investimenti per le perdite generate dalla
banca fallita. Le polemiche di questi giorni e quelle che seguiranno nei
prossimi, con gli inevitabili scarichi di responsabilità e di “caccia al
colpevole”, rischiano però di far perdere di vista gli aspetti importanti della
questione. Per questo è cruciale mettere un po’ di ordine nel dibattito,
isolando gli elementi chiave.
Che
cosa è accaduto
Le quattro banche italiane sono fallite
principalmente perché mal gestite. La Banca d’Italia, dopo averle
commissariate, facendo emergere le ingenti perdite accumulate ed estromettendo
gli amministratori, ha prima cercato di venderle sul mercato, senza successo, e
ha poi avviato la procedura di risoluzione. La tempistica scelta – risolvere le
quattro banche entro il 2015 - è stata dettata dal
tentativo di evitare di
doverlo fare nel 2016, quando la nuova normativa europea sul bail in sarebbe
entrata in vigore. Nel 2015 le regole di risoluzione delle crisi bancarie (note
come BRRD), in vigore dal primo gennaio di questo anno, impongono comunque che
non solo gli azionisti (come è ovvio) ma anche i detentori di obbligazioni
subordinate della banca concorrano a coprirne le perdite. Posporre la
risoluzione al 2016 avrebbe comportato che anche i detentori di obbligazioni
ordinarie emesse dalle quattro banche fallite, e i depositanti con conti
superiori a 100 mila euro, avrebbero subito perdite.
Perché
il nuovo meccanismo?
Le finalità del nuovo meccanismo (tanto
quello in vigore dal gennaio del 2015, quanto quello che entrerà in vigore da
gennaio 2016) sono ben illustrate dalla dichiarazione del commissario europeo
Jonathan Hill, quando nel dicembre del 2014 lo annunciò: “d’ora in poi, saranno
gli azionisti delle banche e i loro creditori che sopporteranno i costi e le
perdite di un fallimento e non più i contribuenti” (per creditori si intendono
gli obbligazionisti e i depositanti con depositi sopra 100 mila euro). La sua
filosofia è che se azionisti e obbligazionisti rispondono direttamente, con i
loro investimenti, delle perdite della banca, staranno più attenti a dove
investono, togliendo i soldi dalle banche rischiose, trasferendoli a quelle più
solide e quindi nel complesso accrescendo la stabilità del sistema finanziario.
Nel passato, secondo l’ispirazione di chi ha disegnato il nuovo sistema, questa
disciplina mancava perché le perdite venivano distribuite tra tutti i
contribuenti, mettendole a carico del bilancio pubblico. Pertanto i
contribuenti pagavano anche per rischi che non avevano assunto direttamente.
Ovviamente il risparmiatore è anche contribuente, per cui alla fine la
differenza tra il vecchio e il nuovo sistema è che con il vecchio il costo del
fallimento di una banca viene distribuito tra tutti i contribuenti, con il
nuovo solo tra un sottoinsieme – quelli che sono creditori della banca fallita.
Il primo sistema offre molta assicurazione ai risparmiatori, il secondo molto
poca. In cambio della minor assicurazione si spera di ottenere dai
risparmiatori più vigilanza sulla scelta della banca, meno fallimenti e meno
costi per l’erario.
Qualcosa
non funziona?
Proteggere il contribuente dal costo del
fallimento di una banca, esponendo invece il risparmiatore a questo rischio,
per rendere le banche più prudenti e mettere al riparo i bilanci pubblici, è la
scelta fatta dai legislatori europei (si badi, inclusi quelli italiani). Ma le
banche diventano più prudenti e il sistema finanziario più stabile se i
risparmiatori sono effettivamente in grado di riconoscere e prezzare il rischio
della banca; i bilanci pubblici sono effettivamente protetti se i governi sono
in grado di resistere alla pressione per salvare i clienti più di quanto siano
in grado di resistere alla pressione di salvare una banca fallita. Vi sono
ragioni per sollevare dubbi su entrambi i fronti, e il caso delle quattro banche
italiane ne offre un buon esempio.
Sul primo punto, buona parte dei creditori
delle banche non hanno la capacità di riconoscere il rischio dello strumento
offerto loro dall’intermediario. I detentori di obbligazioni, almeno nel
mercato italiano dove le obbligazioni bancarie sono molto diffuse, sono
investitori al dettaglio con scarsa consapevolezza e conoscenza finanziaria. I
detentori di depositi superiori a 100 mila euro possono essere imprese
relativamente piccole. Tra gli azionisti ci sono anche i detentori di quote di
banche popolari, che spesso hanno caratteristiche simili - come preparazione
finanziaria - a quelle degli obbligazionisti. In buona sostanza, stiamo
parlando dei normali clienti al dettaglio delle banche. E non ho molti dubbi
che se chiedessimo a un campione di clienti bancari la differenza tra
un’obbligazione subordinata e un’obbligazione ordinaria la stragrande
maggioranza non ne avrebbe la più pallida idea, per non parlare del rischio
effettivo connesso all’una e all’altra. Ricordo che (come documentato in
un’indagine della Banca d’Italia) la metà delle persone non sa neppure
identificare il saldo del proprio conto quando gli viene mostrato. Se i
risparmiatori sottoscrivono questo tipo di strumenti, nella maggior parte dei
casi è perché sono stati loro attivamente proposti e illustrati come strumenti
solidi, con poco rischio e buon rendimento. Così è stato per le obbligazioni
subordinate delle quattro banche liquidate, come emerge da una intervista su
Repubblica al direttore di una filiale della Banca dell’Etruria: “Dal 2013 le
emissioni [di obbligazioni subordinate] si erano impennate e la priorità era
piazzarle per salvare la banca, questo lo capisco solo ora”. Salvare la banca
spostando il rischio sui clienti, che non hanno la capacità di riconoscerlo. Al
punto che rimasero indifferenti anche alle lettere mandate dalla banca, dove si
informava che il profilo di rischio era nel frattempo cambiato.
Sul secondo punto, se una massa ingente di
risparmiatori perde i propri risparmi a seguito del fallimento di una banca, è
difficile per un governo lasciarli sul lastrico. È quello che sta avvenendo in
Italia. La pressione politica perché il governo intervenga per tamponare le
perdite subite dai clienti delle quattro banche è tanto maggiore, quanti più
clienti sono coinvolti e quanto più rilevanti sono le perdite subite, in
proporzione alla ricchezza di ciascuno. Fallimenti bancari, anche di banche
piccole, coinvolgono decine di migliaia di persone; se la risoluzione delle
quattro banche fosse avvenuta nel 2016, anziché nel 2015, sarebbero state
investite circa un milione di persone. È inoltre molto probabile che le perdite
pro-capite siano ingenti (relativamente ai propri risparmi): i risparmiatori
hanno portafogli molto concentrati, il piccolo risparmio è detenuto in una
singola banca, spesso in uno o due strumenti, come per esempio un’obbligazione
bancaria. Quindi chi perde, tipicamente perde il risparmio di una vita.
Difficile che un governo possa resistere a queste pressioni. Quello che si voleva
evitare con il nuovo meccanismo – il coinvolgimento nelle perdite del
contribuente –esce dalla porta ma rischia di rientrare dalla finestra.
In conclusione, il nuovo meccanismo
promosso da Jonathan Hill si basa su un presupposto molto probabilmente sbagliato
– che i risparmiatori siano in grado di identificare il rischio delle banche e
prezzarlo correttamente se solo venisse dato loro l’incentivo per farlo. Alcuni
sono in grado di farlo, la maggior parte no. L’implicazione è che l’effetto
sulla stabilità finanziaria delle nuove regole di risoluzione sarà limitato,
mentre il rischio in capo ai risparmiatori sarà parecchio accresciuto.
Alternativamente, i risparmiatori saranno comunque salvati tramite intervento
pubblico, ma questo avverrà sull’onda della protesta e con minore trasparenza
per districarsi tra le nome europee che lo vietano. Penso che con il tempo
occorrerà rivedere questo meccanismo.
Che
cosa fare
Nel frattempo, con il nuovo meccanismo
bisognerà convivere perché non si cambia una legge come quella il giorno dopo
la sua approvazione; e non possiamo cambiarla unilateralmente perché norma
comunitaria. Vi sono quattro cose che come paese però possiamo e dovremmo fare
per minimizzare le conseguenze negative del nuovo sistema.
1.
Gestire la transizione
Il nuovo sistema di risoluzione delle crisi
è a tutti gli effetti un cambio di regime. I cambi di regime presuppongono una
fase di transizione, per dare tempo alle persone di adattarsi. In questo caso
la transizione significa informare i risparmiatori delle loro nuove
responsabilità. Questa informazione non c’è stata, né in Italia né in Europa.
L’adozione del nuovo modello di risoluzione è stata eccessivamente rapida:
approvata a gennaio del 2015 verrà implementata a gennaio del 2016. Occorre predisporre
un piano da adottare rapidamente per informare i risparmiatori delle
implicazioni delle nuove regole. Un punto analogo lo fa Angelo Baglioni su
lavoce.info.
2.
Agire sui comportamenti delle banche
La nuova normativa sulla risoluzione delle
crisi deve essere l’occasione per porre fine al problema dei collocamenti di
obbligazioni bancari come lo abbiamo conosciuto finora: direttamente presso la
clientela, con il cliente spesso spinto verso l’acquisto che massimizza le
commissioni dell’intermediario, non quello che è il miglior investimento per
lui. È un fatto noto e documentato dalla Consob che un’obbligazione emessa da
una banca e collocata direttamente presso la propria clientela tende a rendere
(molto) meno della stessa obbligazione collocata presso investitori
sofisticati. E spesso rende meno di un titolo del debito pubblico, che non ha
rischio di fallimento comparabile a quello di una banca ed è facilmente
liquidabile. Questa è evidenza chiara e inequivoca che i risparmiatori al
dettaglio non sanno riconoscere e prezzare il rischio della banca,
contrariamente a quanto implicitamente assunto nel nuovo meccanismo di
risoluzione. Ma allora bisogna prevedere che le obbligazioni bancarie siano
inizialmente collocate esclusivamente presso gli investitori istituzionali, e
entrino nei portafogli degli investitori al dettaglio solo attraverso il
mercato secondario o indirettamente, via l’acquisto di quote di fondi.
3.
Pensare a una authority dedicata
Il problema della “responsabilizzazione”
delle banche è ovviamente più vasto del caso obbligazioni; non è peraltro
specifico all’Italia, ma riguarda tutti i paesi sviluppati che hanno conosciuto
un forte sviluppo nell’uso dei servizi finanziari da parte dalle famiglie.
Regolare tale uso richiede un mix intelligente di paternalismo e di libera
scelta, di regole e di discrezionalità. Ciò è più facile da raggiungere con
un’autority specifica dedicata alla protezione del risparmiatore. Gli Stati
Uniti hanno lanciato questo modello, con il Consumer Financial Protection
Bureau. Dovremmo imitarlo.
4.
Rivedere ancor di più la governance delle banche
Le recenti crisi delle banche italiane sono
il riflesso di gravi carenze gestionali a loro volta causate da una cattiva
struttura proprietaria e spesso da interferenze politiche. Così è stato con il
Monte Paschi e con Carige, entrambe controllate da fondazioni bancarie. Due
delle quattro banche fallite avevano una fondazione dietro, le altre sono due
popolari. La riforma delle banche popolari è un passo utile per promuovere una migliore
struttura proprietaria. L’alleggerimento della presenza delle fondazioni un
altro passo nella giusta direzione. Ma è troppo timido. Occorre un programma
per separare definitivamente banche e fondazioni.
Le crisi sono eventi dolorosi per quelli che
ne vengono travolti. Ma spesso offrono l’occasione per trovare il coraggio per
superare convenienti resistenze. Chissà che questa non sia la volta
buona.
Luigi Guiso
Axa
Professor of Household Finance (Eief)
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