domenica 21 marzo 2021

La rabbia e il disinteresse fanno rinunciare al voto un cittadino su tre

 


da: Domani – di Enzo Risso  ricercatore

Alle prime elezioni della Camera nel 1948 l’astensione era al 7,8 per cento, nel 1953 è scesa addirittura al 6,2 A non votare sono soprattutto le donne, le persone fra i 30 e i 50 anni, i meridionali e chi vive nel nord ovest.

L’astensione ha una storia lunga e complessa nel nostro paese. Per oltre quarant’anni è stato è stato un elemento meramente fisiologico, mentre oggi è il primo partito nazionale, con dati che oscillano, nei sondaggi di questi primi mesi del 2021, tra il 38 e il 42 per cento.

La storia dell’astensione

Nel 1948, alle prime elezioni per la Camera dei deputati, la quota di astenuti era il 7,8 per cento. Nel 1953, sospinti dallo scontro sulla “legge truffa”, gli italiani si sono recati in massa alle urne e il non voto è sceso al 6,2 per cento. Nel 1976 in cui la partita elettorale è vissuta a sinistra nella speranza della spallata alla Democrazia cristiana e, sul fronte opposto, sotto l’egida dello spauracchio del sorpasso comunista, il numero dei non partecipanti al voto si assesta al 6,6 per cento. Sarà col 1979 che l’astensione inizia a far parlare di sé e sale al 9,4 per cento, per superare, negli anni del riflusso, la soglia del dieci per cento (11,2 per cento nel 1987).

Da quel momento il fenomeno astensionista inizia la sua accelerazione. Nel 1994, l’anno

della prima prova elettorale di Silvio Berlusconi, gli astenuti sono il 13,7 per cento. Due anni dopo, nell’anno della vittoria dell’Ulivo, i non votanti salgono al 17,1 per cento.

Con il valicare del millennio il processo di disaffezione aumenta il passo. Nel 2001 gli astenuti si portano al 18,6 per cento e solo lo scontro frontale tra le due coalizioni nel 2006 riaccende gli animi politici e riesce a mobilitare vaste fasce dell’elettorato: il “non voto” regredisce al 16,4 per cento.  

Da allora in poi l’astensione ha iniziato a correre. Nel 2008 è il 19,5 per cento. Cinque anni dopo sale al 24,8 per cento, mentre nella corsa elettorale del 2018 la quota degli astenuti raggiunge il 27,1 per cento del corpo elettorale.

La scelta del “non voto”

Le vicende del non voto sono articolate e non lineari. Una differenza immediatamente riscontrabile è la maggiore freddezza degli italiani verso le elezioni europee. Già nella prima competizione, nel 1979, la partecipazione è stata inferiore rispetto al turno nazionale, con il 14,3 per cento di non voto rispetto al 9,4 della competizione nazionale. Nel 1994 la fuga dalle urne europee è passata al 26,4 per cento, per salire al 30 per cento nel 1999, valicare quota quaranta per cento (41,31 per cento) nel 2014 e arrivare al 43,91 per cento nella tornata europea del 2019.

L’astensione, oggi, è un magma composito. A guidare le motivazioni del non voto sono, innanzitutto, due sensazioni: l’indignazione e la rabbia verso tutti i partiti (entrambi 27 per cento). Segue, a distanza, lo storico disinteresse per la politica (19 per cento). La scelta del non voto non è omogenea e si differenzia in base alla classe sociale, al genere, all’età, alla zona di residenza.

L’indignazione è il primo fattore che spinge a disertare le urne le donne (33 per cento), le persone tra i trenta e i cinquanta (38 per cento), il ceto medio-basso (34 per cento), i residenti nel nord ovest (37 per cento) e quelli che abitano nelle regioni del sud (45 per cento).

La rabbia verso tutto e tutti è il principale fattore di diserzione delle urne per una quota di donne (32 per cento), di giovani con meno di trenta anni (22 per cento), di appartenenti ai ceti bassi e popolari (35 per cento), di residenti nel nordest (47 per cento).

Il disinteresse per la politica è il principale fattore che spinge al non voto gli uomini (24 per cento), le persone più adulte, chi ha più di cinquanta anni (37 per cento), le persone che si collocano nel ceto medio (28 per cento) e i residenti nelle isole (56 per cento).

Dal punto di vista politico, le persone che hanno scelto l’astensione a causa della delusione rispetto al proprio partito o all’evoluzione intrapresa dalla propria parte politica, trova in testa gli ex elettori della sinistra. Il 7 per cento degli italiani afferma di aver sempre votato per la sinistra, ma di essere stufo dei comportamenti messi in atto dai diversi partiti. Su questa posizione incontriamo, soprattutto, le persone che fanno parte del ceto medio-basso (11 per cento), le donne (11 per cento) e quanti hanno una età compresa tra i trentuno e i cinquant’anni (10 per cento).

Tra gli astensionisti amareggiati dalla linea del partito rientrano anche il 3 per cento degli elettori del Movimento 5 stelle e il 2 per cento degli elettori di destra. I più disillusi dal partito di cui è garante Beppe Grillo sono gli uomini (5 per cento), gli over cinquanta (4 per cento), i residenti nel nord ovest (7 per cento) e nelle isole (7 per cento). La destra ha scontentato e spinto all’astensione, in particolare, gli uomini (4 per cento), quelli tra i trenta e i cinquanta anni (4 per cento), gli appartenenti al ceto medio (6 per cento) e i residenti nel nord ovest (7 per cento).

La sfida della politica

Le vie attraverso le quali le persone giungono alla scelta astensionista sono molteplici e mutano anche tra competizione nazionale e locale. Nel tempo la disaffezione è diventata più marcata nelle competizioni regionali e comunali, rispetto a quella nazionale, in cui in gioco ci sono elementi più empatici e di appartenenza. Al fondo, tuttavia, la sfida all’astensione si gioca sul fronte della capacità dei partiti di riconnettersi con la società, di spingere in avanti il cambiamento, di mettere in atto un duro contrasto alla corruzione, di selezionare la classe dirigente e di mettere sul piatto idee concrete di futuro e di una visione per il paese e le città.

La sfida è quella di trasmettere l’idea della politica come impegno per il futuro di tutti.

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