domenica 21 marzo 2021

Cantieri e ponte sullo Stretto: Le vane ossessioni dei governi

 


da: Domani - di Giorgio Meletti

Da decenni tutti spiegano che l’Italia ha bisogno di più infrastrutture. Ma dopo gli annunci roboanti, i  “decreti semplificazione” e gli “sblocca cantieri” non è mai successo niente. Una logica pericolosa in vista del Recovery

Stressati dalla pandemia, uomini di governo e leader politici di ogni ordine e grado sembrano trovare svago e relax nel rinnovare ogni giorno l’antico dibattito sul ponte sullo Stretto di Messina. Argomento che si potrebbe trascurare valutandone la natura folcloristica, se non fosse lecito il sospetto che lo stesso tipo di metodo scientifico venga applicato, pur in costanza di governo dei migliori, ai progetti per il Recovery plan, indicato come decisivo per le sorti del paese.

Vengono dette cose totalmente prive di senso con un sussiego da verità rivelata. Uno per tutti: Matteo Salvini, leader della Lega, ha detto che se costruiamo il ponte diamo lavoro a 100mila persone e assorbiamo quattro anni di produzione dell’Ilva di Taranto così risolviamo anche quel problema lì. Guardiamo i fatti da un punto di vista non scientifico ma pratico.

L’Ilva di Taranto produce da 50 anni rotoli di lamiera e solo rotoli di lamiera. Fare un

ponte come quello in lamiera non sembra una scelta così arguta. Ma convertire l’Ilva alla produzione di travi d’acciaio e tondini di ferro – ciò che serve per fare i ponti – costerebbe qualche miliardo. E sarebbe come prendere una nave da crociera e trasformarla in una portaerei.

Quanto ai 100mila lavoratori se, come dicono, la eventuale costruzione del ponte durasse dieci anni, l’opera costerebbe solo di manodopera almeno 30 miliardi, più quattro anni di produzione dell’Ilva che valgono 10-15 miliardi, più tutto il resto. Insomma, non meno di 50 miliardi aggiungendo ai 5 miliardi pubblicamente preventivati i 45 sognati da Salvini.

Sembra una barzelletta ma è tutto vero. La fantasia e la realtà sono ormai inestricabili quando si entra nell’universo onirico di una classe politica tutta, con poche eccezioni, convinta da decenni che la salvezza dell’economia italiana sarà assicurata dallo “sblocco dei cantieri” e dalle “semplificazioni” e “sburocratizzazioni”.

Solo che dopo decenni di annunci roboanti non è mai successo niente eppure continuano ad annunciare con la stessa serena improntitudine.

Gli eroici giuristi

A settembre scorso il parlamento ha convertito in legge il decreto n. 76, più noto come “decreto semplificazioni”, prodotto dal governo Conte giallorosa. I decreti di semplificazione sembrano scritti dai capi degli uffici legislativi per arricchire i loro amici avvocati. Ne fece uno il governo Monti nel 2012, uno il governo Letta nel 2013, poi ci furono le numerose revisioni del Codice appalti, infine il decreto di semplificazione del Conte gialloverde. L’ultimo “decreto semplificazione” introduce in realtà 65 nuovi articoli che sviluppano 322mila caratteri di testo, quanto un buon romanzo giallo. Con risultati come il primo comma dell’articolo 4 che così legifera: «All’articolo 32, comma 8, del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, sono apportate le seguenti modificazioni: a) al primo periodo, le parole “ha luogo” sono sostituite dalle seguenti: “deve avere luogo”». Il giurisperito estensore ha ritenuto che in una legge «ha luogo» non è sufficientemente imperativo. Fosse per questo eroico giurista ignoto ogni verbo della carta costituzionale andrebbe preceduto da una voce del verbo dovere. Un funzionario della Camera, altrettanto eroico, ha segnalato in un atto preparatorio per i deputati che stavano votando una legge che sostituiva due parole del Codice appalti con altre due parole perfettamente equivalenti, ma nessuno gli ha dato retta.

Questo può sembrare, come sopra, folclore, e invece a ben guardare è con questa accuratezza che vengono decisi i destini del paese. Enrico Giovannini, ministro delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili (Mims, anche se le sue mail portano ancora la vecchia intestazione Mit), si è buttato a capofitto nella questione del ponte di Messina, dicendo che aspetta con ansia che la commissione nominata dalla precedente ministra Paola De Micheli, gli dica se è meglio fare il ponte a una campata, il ponte a tre campate, o il tubo sommerso e ancorato al fondo del mare. Forse è uno scherzo. Bene ripercorrere date e fatti.

Datemi una commissione

Nel 1987 una analoga commissione dovette decidere se era meglio il ponte o il tubo. Già 43 anni fa, come oggi, c’era la proposta del tunnel subalveo, quello che passa sotto il fondo del mare, che siccome però è a 150 metri sotto il pelo dell’acqua richiedeva ai treni di infilarsi in un tunnel di 40 chilometri per discendere gradualmente. L’apparente follia fu presa seriamente in considerazione negli anni Ottanta, studiata dalla commissione di esperti e scartata. Dopo 40 anni abbiamo ricominciato. La ministra De Micheli nomina una commissione e le chiede di valutare tutte le soluzioni. Dopo mesi di discussione, la commissione arriva a dire che il tunnel subalveo è un’idiozia e che bisogna scegliere tra il ponte e il tunnel a mezz’acqua. Il ministro Giovannini attende con pazienza perché, dice, «la complessità e delicatezza del progetto richiede una attenta valutazione del governo». Anche lui dunque, fa finta di credere che la costruzione del ponte di Messina sia all’ordine del giorno. Bene ricordare le puntate precedenti.

Nel 2005 l’appalto fu vinto dal consorzio Eurolink (capitanato da Impregilo, oggi Webuild) con un ribasso talmente forte da indurre il secondo arrivato, Astaldi, a fare ricorso al Tar. Il sospetto dell’Astaldi era che Impregilo, sapendo come tutti che il ponte non sarebbe mai stato costruito, avesse offerto un ribasso anomalo per essere certo di aggiudicarsi non la costruzione dell’opera ma gli 800 milioni di penali per la mancata costruzione che erano già preventivati. E infatti, oggi, a 15 anni di distanza, Webuild è in tribunale e chiede allo stato italiano proprio quegli 800 milioni. E lo stato italiano, attraverso i suoi massimi rappresentanti, continua a far finta di credere (o, peggio, a credere) che quel ponte si possa fare.

Tutto fermo

Lo stesso ragionamento vale purtroppo per l’ossessione di sbloccare i cantieri. Fanno credere, da decenni, che l’Italia sia priva delle necessarie infrastrutture perché i cantieri vengono bloccati o ritardati dalla convergente e nefasta azione di un’ottusa burocrazia e di un’occhiuta magistratura che fanno uso di leggi complicate per mettere i bastoni fra le ruote del progresso. È una litania ininterrotta di tutti i governi dopo la stagione di Mani pulite, destra e sinistra senza distinzione alcuna. Il primo decreto “sblocca cantieri” l’ha fatto il governo Prodi nel 1997, perché bisognava liberare le forze produttive dalle pastoie della legge Merloni che nel ’94, governo Ciampi, aveva cercato di mettere un freno alla mangiatoia degli appalti. Poi il governo Berlusconi ha dato il via libera con la legge Obiettivo del 2002, definita dal magistrato Raffaele Cantone «criminogena». Poi è arrivato Matteo Renzi che a settembre 2014 ha sbloccato opere per 30 miliardi con il decreto “Sblocca Italia”. Poi lo stesso Renzi ha lanciato la riforma del codice degli appalti, vantandosi di averlo ridotto da duemila articoli a 600, però non notando che gli articoli erano lunghi il triplo di prima. Era il 2016.

Poi nel 2017 c’è stato il primo correttivo al codice appalti, poi è arrivato al governo Luigi Di Maio (2018) che ha notato come il codice appalti, pur rivisto, continuava a «terrorizzare» (testuale) i pubblici ufficiali che così non firmavano niente. E così nel 2019 è arrivato lo sblocca cantieri di Danilo Toninelli, e adesso c’è lo sblocca cantieri di Giovannini che mette sulle 58 opere principali in corso un commissario “modello Genova” che può agire in deroga a quasi tutte le leggi, per andare spedito. Ora però c’è una questione sostanziale.

Le prime cento società di costruzioni italiane fatturano in tutto 10 miliardi, in media 100 milioni a testa. Il gigante indiscusso, Webuild, negli ultimi cinque bilanci pubblicati ha fatturato in media in Italia 5-600 milioni, poco più del 10 per cento del suo fatturato globale. Però ha un portafoglio di lavori futuri di 12 miliardi, circa 20 volte il fatturato, cosa che non ha eguali al mondo. Webuild ha in Italia 1.700 dipendenti su 24mila che ne ha nel mondo. Uno prende la calcolatrice, fa due conti e subito nasce il sospetto: ma non sarà che questi cantieri li tengono fermi i costruttori per  aprirli quando saranno in comodo senza correre nel frattempo il rischio che gli appalti vadano a colossi stranieri? La stessa domanda può essere girata in un altro modo: se Giovannini riuscisse nel miracolo che a nessuno prima di lui è riuscito, neppure a un concreto banchiere come Corrado Passera, per dire, e aprisse una quantità di cantieri doppia o tripla rispetto alle abitudini, chi ci va a costruire quei ponti e quelle ferrovie? 

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