da: la Repubblica
La campagna elettorale per il referendum
costituzionale, già cominciata da tempo, ha avuto una forte e prevedibile
accelerazione dopo i risultati del referendum sulle trivelle. E dalle polemiche
e dai conflitti di questi giorni già vengono indicazioni che consentono di
avanzare ipotesi sui caratteri che assumerà la campagna elettorale e sugli
effetti che via via si produrranno nel sistema politico-istituzionale.
Si deve partire da una constatazione. I referendum sono un gioco a somma zero, un sì contro un no, un vincitore e un vinto, e quindi il conflitto è nella loro stessa natura. Fatta questa ovvia constatazione, si tratta poi di stabilire per ciascun referendum come si strutturi concretamente il conflitto, con quali caratteristiche e intorno a che cosa. E, facendo questo, si scopre che i referendum possono incidere sul funzionamento del sistema politico al di là della conferma o dell’abrogazione di una legge. Più d’una volta, negli anni passati, si è ritenuto che un voto referendario potesse avere un effetto destabilizzante del sistema politico al punto tale che, pur di evitarlo, in alcuni casi si è preferito sciogliere le Camere.
Considerando le ultime vicende, i critici
dell’utilità del voto sulle trivelle hanno
insistito sul fatto che ben cinque
dei sei quesiti predisposti dalle regioni avevano trovato una risposta positiva
da parte del governo, sì che non valeva più la pena di andare a votare su un
caso residuale. Valutazioni a parte su questo giudizio, questa vicenda mostra
come una semplice richiesta referendaria possa modificare l’agenda politica,
stabilire priorità. Inoltre, la mobilitazione sociale necessaria già al momento
della raccolta delle firme può dare origine ad un vero e proprio movimento, a
forme di intervento alle quali i cittadini ricorrono quando appaiono chiusi gli
altri canali di partecipazione politica.
Questo sfaccettarsi delle funzioni del
referendum diviene ancor più evidente se si considera l’imminente referendum
costituzionale. All’abituale polarizzazione referendaria, infatti, si è questa
volta aggiunta una chiara personalizzazione del voto perché, con l’annunciata
decisione di dimettersi in caso di bocciatura della riforma, il presidente del
Consiglio ha ormai trasformato l’occasione referendaria in un vero e proprio
voto di fiducia.
Si può dire, ed è stato detto, che un
governo, se attribuisce una particolare importanza ad alcuni suoi
provvedimenti, ben può ritenere che la loro cancellazione impedisca la
prosecuzione della sua azione, annunciando preventivamente ai cittadini questa
sua intenzione. Ma questo referendum non
riguarda l’indirizzo politico di maggioranza bensì, come è giusto dire, una
massiccia riscrittura delle regole del gioco, con una modifica della forma
di governo e del contesto democratico definito dalla Costituzione.
Lo ha messo in evidenza efficacemente
Romano Prodi, ricordando che «le riforme costituzionali debbono durare molto e
non possono essere mirate solo all’interesse di chi possiede la maggioranza del
momento».
Il riferimento ai soli interessi della
maggioranza è, alla lettera, quello che si trova nelle pagine di Hans Kelsen
dedicate alla virtù fondativa del «compromesso », dove si sottolinea che esso
«fa parte della natura stessa della democrazia » e consiste, in primo luogo,
nel risolvere «un conflitto mediante una norma che non è totalmente conforme
agli interessi di una parte, né totalmente contraria agli interessi
dell’altra». Chi ha memoria della nostra storia costituzionale, cosa ben
diversa dai troppi richiami sgangherati ai lavori dell’Assemblea costituente
fatti in questo periodo, ricorda che di un “compromesso costituzionale” si è
molto parlato, anche con toni critici, ma in definitiva riconoscendo la
saggezza politica dei costituenti che, attraverso un confronto serrato, erano
giunti a sintesi assai elevate, garantendo l’alta qualità della Costituzione.
Si dice che bisogna discutere nel merito la riforma sottoposta al voto. Ma non vi è merito più importante e ineludibile della valutazione della logica che la ha guidata e di quale risultato, in termini di democrazia, sia stato raggiunto. È bene ricordare, allora, che nel corso dell’iter parlamentare, e in particolare in occasione delle audizioni di molti studiosi, proprio sul punto centrale della nuova disciplina del Senato vi erano state proposte assai circostanziate di modelli che avrebbero evitato non solo il pasticcio attuale, ma avrebbero consentito una soluzione davvero innovativa, con effetti di seria semplificazione e mantenimento di equilibri costituzionali che, soprattutto se si tiene conto dell’intreccio con la nuova legge elettorale, vengono invece pregiudicati. Il buon “compromesso democratico” è lontano, e di questo si dovrà discutere.
Ma il riferimento alla democrazia torna, in maniera ancor più impegnativa, quando si constata che siamo di fronte al passaggio da una democrazia rappresentativa ad una democrazia d’investitura, dunque ad un mutamento della forma di governo. Ancora una ineludibile questione di merito, se appena si considera che la sentenza della Corte costituzionale che ha cancellato il “Porcellum” è sostanzialmente fondata sulla constatazione che non veniva garantita proprio la rappresentanza dei cittadini. E questo non è tema che riguarda il passato, perché la Corte costituzionale dovrà occuparsi della legittimità dell’Italicum, contestata con argomenti che sottolineano come anche questa nuova legge elettorale sia viziata da un deficit di rappresentanza (e contro l’Italicum si stanno anche raccogliendo le firme per un referendum abrogativo).
Vero è che ad ottobre non si voterà sulla legge elettorale. Ma è evidente che la discussione investirà anche questo aspetto della strategia istituzionale del governo, come peraltro sta già avvenendo, perché la stessa riforma costituzionale evoca il tema del potere dei cittadini con le nuove norme sui referendum e sulla iniziativa legislativa popolare, in sé deboli e comunque inadeguate per costituire un contrappeso ad un accentramento del potere che mette la maggioranza nella condizione di poter vanificare le iniziative popolari (altra cosa è la democrazia partecipativa considerata anche nella dimensione digitale). Giustificato con l’argomento della semplificazione delle procedure di decisione (realizzata invece in forme confuse e contraddittorie), il moto ascendente del potere, la sua concentrazione in poche mani pongono chiaramente una questione di democrazia, già evidente in alcune inquietanti prassi dell’attuale governo, o per meglio dire del presidente del Consiglio. Il giudizio degli elettori riguarderà inevitabilmente tutti questi aspetti della questione, che oggi si presenta con i tratti di una democrazia messa sotto tutela.
Diventa fondamentale, allora, il contesto nel quale si svolgerà la campagna elettorale. Uno storico come Emilio Gentile ha appena pubblicato un libro dal titolo “Il capo e la folla”, che riprende un tema trattato nel 1895 da Gustave Le Bon, analizzando “la psicologia delle folle”. La ricostruzione dei rapporti tra il leader e le masse, la personalizzazione del potere ci portano ai giorni nostri, che conoscono il pieno dispiegarsi di quella che Abramo Lincoln chiamò la “democrazia recitativa”. Varrà la pena di tornare su questo tema. Ma, considerando la campagna elettorale, bisognerà garantire subito che la “recita” non sia riservata ad un numero ristretto di personaggi. Questo chiama in causa particolarmente la televisione pubblica, ma implica una responsabilità dell’intero sistema informativo. Una questione di democrazia, che si aggiunge alle altre appena ricordate.
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