mercoledì 25 maggio 2016

Il Referenzum: Marco Travaglio, “Gabbanini”


da: Il Fatto Quotidiano 

Dopo tanti cadaveri eccellenti, da Berlinguer a Ingrao alla Iotti, arruolati nella ragionevole certezza che non possano disertare, il fronte del Sì al Referenzum strappa finalmente la firma di un vivo famoso, accanto a quelle dei soliti giuristi di partito e di governo ignoti ai più: Franco Bassanini, consulente di Renzi per l’innovazione (ha appena 76 anni) dopo l’uscita da Cassa depositi e prestiti, già Psi, Indipendente di Sinistra col Pci, poi Pds, Ds e Pd, salvo una fuitina in un memorabile comitato di “saggi” di Alemanno. Non è certo la prima volta che l’insigne giurista firma qualcosa.

L’11 dicembre 1989 il suo pregiato autografo apparve in calce a una lettera piuttosto servile a Bettino Craxi, che si chiudeva così: “A tua disposizione per ogni collaborazione che riterrai utile”. Il che – quando uscì sul Giornale otto anni fa – fece un po’ discutere, perché Bassanini nell’89 era deputato della Sinistra Indipendente e, ai tempi del Psi, aveva militato nella sinistra ferroviaria di Signorile, prima di essere espulso nel 1981 per un manifesto sulla questione morale, peraltro in lieve contraddizione con i trascorsi accanto a Giorgio Mazzanti, ras craxiano e piduista dell’Eni. Bassanini comunque giurò che la lettera, conservata da Craxi in archivio, era “apocrifa”.

È invece autentico un suo saggio del settembre 2006 su Il Mulino a proposito del referendum costituzionale che l’aveva appena visto ai vertici del Comitato del No alla schiforma Berlusconi-Bossi-Calderoli. Un saggio che, senza la data, sarebbe perfetto per il Comitato del No alla schiforma Renzi-Boschi-Verdini. Dopo la vittoria schiacciante dei No, Bassanini parlava di “svolta”, come dopo “i referendum sul divorzio e sul maggioritario”: “Uno di quei referendum che lasciano un segno e impongono una discontinuità nella storia politica”, con buona pace dei “gattopardi, già all’opera per ridimensionarne la portata”.

Quale portata? Il definitivo e irreversibile “rifiuto di riforme non condivise o incoerenti con i principi e i valori fondamentali della Costituzione”, come richiesto dal Comitato del No creato dalla sua Astrid e da Libertà e Giustizia a suon di convegni su “Salviamo la Costituzione: aggiornarla, non demolirla”, con “Amato, Fassino, Rutelli, Bertinotti, Veltroni e Prodi” autore di “un ruvido intervento: ‘No alla dittatura del premier’”. Ai valorosi combattenti si unirono tosto “Cgil, Cisl, Uil, i partiti dell’Unione, Acli, Arci, Anpi”. Perbacco, perfino l’Anpi, allora tutta formata da partigiani veri. E poi una “vastissima schiera di costituzionalisti, giuristi e studiosi”: gli stessi che dicono NO anche oggi, salvo Bassanini s’intende. E pure –udite udite – vari “magistrati”, ancora dotati del diritto di parola. Il messaggio era forte e chiaro: “Le Costituzioni sono destinate a durare nel tempo. Non cambiano ad ogni cambio di maggioranza…Nelle grandi democrazie le modifiche costituzionali vanno concordate fra maggioranza e opposizione”, mai “sostenute dalla sola maggioranza”. Questo lo “fece il centrosinistra, nel 2001, con la riforma del titolo V...Lo ha fatto il centrodestra, con una riforma assai più impegnativa” e non doveva accadere mai più. Ergo, vinto il referendum, bisognava “mettere in sicurezza la Costituzione, rafforzandone il grado di rigidità…elevando a 2/3 la maggioranza necessaria per approvare le leggi di revisione (come in Germania e negli Usa, dove peraltro occorre poi anche l’approvazione dei Parlamenti di 4/5 degli Stati)”.

Insomma, mai più “l’idea di una grande riforma costituzionale…semplicemente perché non ce n’è bisogno” né “riforme imposte a colpi di maggioranza dalla coalizione che ha vinto le elezioni”. Figurarsi da un premier che dalle elezioni non ci è mai passato. “Il referendum non lascia dubbi”, “così hanno deciso gli italiani, nell’esercizio diretto dei loro poteri sovrani”: “Rifiutare una grande riforma, preferire la via di riforme puntuali e mirate, coerenti con i principi e i valori costituzionali”. Ma con “leggi ordinarie” e nuovi “regolamenti parlamentari”.

E che a nessuno venisse più in mente “il modello ipermonista di concentrazione dei poteri nelle mani del capo del governo, in deroga al principio della divisione dei poteri”. Semmai urgevano “argini solidi al potere di chi ha vinto…Il pluralismo istituzionale, i controlli sul potere, i checks and balances, non sono un impaccio. Sono la forza della democrazia…Perché il ‘potere corrompe’ e il ‘potere assoluto corrompe assolutamente’”. “Purtroppo – notava amaro il Bassanini – in Italia hanno molto seguito teorie esasperatamente moniste…l’idea che la miglior forma di governo sia quella che concentra quasi tutti i poteri in capo a un uomo solo e gli garantisce l’inamovibilità nella carica, per tutta la legislatura, alla sola condizione che egli sia scelto dagli elettori”: “forme di governo cesariste, plebiscitarie o peroniste. Non basta infatti la legittimazione elettorale, per rendere democratica una forma di governo: la storia è ricca di dittatori eletti”.

Per tutti questi motivi, dieci anni dopo, la schiforma Renzi-Boschi-Verdini imposta insieme all’Italicum a colpi di maggioranza (tra l’altro truccata dal Porcellum) per accentrare tutti i poteri nelle mani del capo del primo partito e dunque del governo, e svilire il Parlamento e tutti gli organi di controllo, ha ottenuto la firma di Bassanini. Seguirà, con poco sforzo, un suo nuovo saggio su Il Mulino, previa avvertenza al redattore: “Prendi il testo del 2006 e, dove scrivo Berlusconi, metti Renzi. Dove scrivo mai, metti sempre. Dove scrivo brutto, metti bello. Dove scrivo NO, metti Sì. Sempre a disposizione”.

1 commento:

  1. La tentazione di afferrare tutte le leve del potere è sempre viva anche da noi nonostante l' esperienza del ventennio fascista.
    Spero che gli italiani sappiano scongiurare questo pericolo anche se il dubbio rimane, poichè ai nostri compaesani basta la promessa di un biglietto gratis allo stadio per vendersi anche l' ano.

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