da: Il Fatto Quotidiano
In
vista della consultazione popolare fissata a ottobre sulle modifiche alla
Carta, il presidente emerito della Consulta elenca le ragioni per votare contro
il disegno messo a punto dal premier e dal suo governo
Nella campagna per il referendum
costituzionale i fautori del Sì useranno alcuni slogan. Noi, i fautori del NO,
risponderemo con argomenti. Loro diranno, ma noi diciamo.
1. Diranno che “gli italiani”
aspettano queste riforme da vent’anni (o trenta, o anche settanta, secondo
l’estro)
Noi diciamo che da quando è stata approvata
la Costituzione – democrazia e lavoro – c’è chi non l’ha mai accettata e, non
avendola accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla
per imporre una qualche forma di regime autoritario. Chi ha un poco di memoria,
ricorda i nomi Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni Di
Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli, per non parlare di quella
corrente antidemocratica nascosta che di tanto in tanto fa sentire la sua
presenza nella politica italiana. A costoro devono affiancarsi, senza
confonderli, coloro che negli anni hanno cercato di modificare la Costituzione
spostandone il baricentro a favore del
governo o del leader: commissioni bicamerali
varie, “saggi” di Lorenzago, “saggi” del presidente, eccetera. È vero: vi sono
tanti che da tanti anni aspettano e pensano che questa sia finalmente “la volta
buona”. Ma questi non sono certo “gli italiani”, i quali del resto, nella
maggioranza che si è espressa nel referendum di dieci anni fa, hanno respinto
col referendum un analogo tentativo, il tentativo che, più di tutti gli altri
sembrava vicino al raggiungimento dello scopo. A coloro che vogliono parlare
“per gli italiani”, diciamo: parlate per voi.
2. Diranno che “ce lo chiede l’Europa”
(…) Diteci che cosa rappresenta l’Europa di
oggi se non principalmente il tentativo di garantire equilibri
economico-finanziari del Continente per venire incontro alla “fiducia degli
investitori” e a proteggerli dalle scosse che vengono dal mercato mondiale. A
questo fine, l’Europa ha bisogno d’istituzioni statali che eseguano con
disciplina i Diktat ch’essa emana, come quello indirizzato il 5 agosto 2011 al
“caro primo ministro”, contenente un vero e proprio programma di governo
ultra-liberista, in materia economico-sociale, associato all’invito di darsi
istituzioni decidenti per eseguirlo in conformità. Dite: “Ce lo chiede
l’Europa” e tacete della famosa lettera Draghi-Trichet, parallela ad analoghi
documenti provenienti da “analisti” di banche d’affari internazionali, che
chiede riforme istituzionali limitative degli spazi di partecipazione
democratica, esecutivi forti e parlamenti deboli, in perfetta consonanza con
ciò che significano le “riforme” in corso nel nostro Paese. (…) A chi dice: ce
lo chiede l’Europa, poniamo a nostra volta la domanda: qual è l’Europa alla
quale volete dare risposte?
3. Diranno che le riforme servono alla
“governabilità”
(..) “Governabile” è chi si lascia
docilmente governare e chiediamo: chi si deve lasciar governare e da chi? Noi
pensiamo che occorra “governo”, non governabilità, e che governo, in democrazia,
presupponga idee e progetti politici capaci di suscitare consenso, partecipazione,
sostegno. In assenza, la democrazia degenera in linguaggio demagogico,
rassicurazioni vuote, altra faccia della rassegnazione, e dell’abulia: materia
passiva, irresponsabile e facile alla manipolazione. Questa è la governabilità.
A chi dice “governabilità” noi rispondiamo: partecipazione e governo
democratico.
4. Diranno: ma la riforma è pur stata
approvata dal Parlamento, l’organo della democrazia
Ma noi diciamo: quale Parlamento? Il
Parlamento illegittimo, eletto con una legge elettorale obbrobriosa, dichiarata
incostituzionale, per l’appunto, per essere antidemocratica (deputati e
senatori nominati e non eletti; premio di maggioranza abnorme che ha scollato
gli eletti dagli elettori). La Corte costituzionale ha bollato quell’elezione
come una specie di golpe elettorale, per avere “rotto il rapporto di rappresentanza”
(testuale). È vero che la Corte aggiunse che, per l’esigenza di continuità
costituzionale, le Camere così elette non sarebbero decadute immediatamente.
Ma è chiaro a tutti coloro che hanno ancora
un’idea seppur minima di democrazia che da quella sentenza si sarebbe dovuto
procedere tempestivamente, per mezzo d’una nuova legge elettorale conforme alla
Costituzione, a nuove elezioni, per ristabilire il rapporto di rappresentanza.
(…) È vero che, scandalosamente, anche da parte delle più alte autorità della Repubblica,
dell’informazione e da parte di non poca “dottrina” costituzionalistica, si fa
finta che non esista una questione di legittimità che getta un’ombra su tutta
questa vicenda, tanto più in quanto, se non vi fosse stato l’incostituzionale
premio di maggioranza, sarebbero mancati i numeri necessari per portarla a
compimento. (…)
5. Parleranno di atto d’orgoglio
politico dei parlamentari, finalmente capaci di “autoriformarsi” senza guardare
al proprio interesse
Noi parliamo, piuttosto, d’arroganza
dell’esecutivo. Queste riforme sono state avviate dall’esecutivo con l’impulso
di quello che, per debolezza e compiacenza, è potuto essere per diversi anni il
vero capo dell’esecutivo, il presidente della Repubblica; sono state recepite
nel programma di governo e tradotte in disegni di legge imposti
all’approvazione del Parlamento con ogni genere di pressione (minacce di
scioglimento, di epurazione, sostituzione dei dissenzienti, bollati come
dissidenti), di forzature (strozzamento delle discussioni parlamentari,
caducazione di emendamenti), di trasformismo parlamentare (passaggi
dall’opposizione alla maggioranza in cambio di favori e posti) fino ai voti di
fiducia, come se la Costituzione e le istituzioni fossero materia appartenente
al governo, fino a raggiungere il colmo: la questione di fiducia posta
addirittura agli elettori, sull’approvazione referendaria della riforma (o me o
la riforma, sempre che voglia prendere sul serio un simile proclama da parte di
uno che non eccede in coerenza ed eccede invece in
spregiudicatezza). Questo non è il primato della politica, ma delle
minacce e degli allettamenti. Se volete parlare di politica, noi diciamo: sì,
ma sapendo che è mala politica.
6. S’inorgogliranno chiamandosi
“governo costituente”
Noi diciamo che il “governo costituente”,
in democrazia, è un’espressione ambigua. Sono i governi dei caudillos e dei
colonnelli sud-americani, quelli che, preso il potere, si danno la propria
costituzione: costituzione non come patto sociale e garanzia di convivenza ma
come strumento, armatura del proprio potere. Il popolo e la sua rappresentanza,
in democrazia, possono essere “costituenti”. I governi, poiché sono espressione
non di tutta la politica, ma solo d’una parte, devono stare sotto la Costituzione,
non sopra come credono invece di stare d’essere i nostri riformatori che si
fanno forti dello slogan “abbiamo i numeri”, come se avere i numeri, comunque racimolati,
equivalga all’autorizzazione a fare quel che si vuole. (…)
7. Diranno che l’iniziativa del
governo nelle faccende costituzionali non ha nulla d’anormale e, quelli che
sanno, porteranno l’esempio della Francia, del
generale De Gaulle e della sua riforma costituzionale del 1962.
Noi ci limitiamo a porre queste domande:
credete davvero d’essere dei nuovi De Gaulle, il capo della Resistenza
repubblicana che sbarca in Normandia al momento della liberazione? E di poter
paragonare l’Italia di oggi alla Francia d’allora? La riforma francese aveva
alla sua base le idee costituzionali enunciate “disinteressatamente” nel 1946 a
Bayeux, guardando lontano e radicandosi nel passato della storia della Repubblica
francese. Noi abbiamo invece testi raffazzonati all’ultima ora, la cui
approvazione si è resa possibile per equivoci compromessi concettuali e
lessicali, proprio sul punto centrale della riforma del Senato. (…)
8. Diranno che, anche ad ammettere che
la riforma abbia avuto una genesi non democratica e un iter parlamentare
telecomandato nei tempi e nei contenuti, alla fine la democrazia trionferà nel
referendum confermativo.
Noi diciamo che la riforma forse sottoposta
al giudizio degli elettori porta il segno della sua origine tecnocratica
unilaterale e che il referendum richiesto dallo stesso governo che l’ha voluta
lo trasformerà in un plebiscito. Non si tratterà di un giudizio su una Costituzione
destinata a valere negli anni, ma di un voto su un governo temporaneamente in
carica. (…) Avremo una campagna referendaria in cui il governo avrà una
presenza battente, come se si trattasse d’una qualunque campagna elettorale a
favore di una parte politica, e farà valere il “plusvalore” che assiste sempre
coloro che dispongono del potere, complice anche un’informazione ormai quasi
completamente allineata.
9. Diranno che non c’è da fare tante
storie, perché, in fondo si tratta d’una riforma essenzialmente tecnica,
rivolta a razionalizzare i percorsi decisionali e a renderli più spediti ed
efficienti
Noi diciamo: altro che tecnica! È la razionalizzazione
d’una trasformazione essenzialmente incostituzionale, che rovescia la piramide
democratica. Le decisioni politiche, da tempo, si elaborano dall’alto, in sedi
riservate e poco trasparenti, e vengono imposte per linee discendenti sui
cittadini e sul Parlamento, considerato un intralcio e perciò umiliato in tutte
le occasioni che contano. La democrazia partecipativa è stata sostituita da un
sistema opposto di oligarchia riservata. (…) Le “riforme” costituzionali sono
in realtà adeguamenti della Costituzione a questa realtà oligarchica. Poiché
siamo per la democrazia, e non per l’oligarchia, siamo contrari a questo adeguamento
spacciato come riforma.
10. Diranno che i partiti di sinistra,
già al tempo della Costituente, avevano criticato il bicameralismo (cuore della
riforma) e che perfino Pietro Ingrao, ancora negli anni 80, si espresse per
l’abolizione del Senato
Noi diciamo: andate a leggere i resoconti
di quei dibatti e vi renderete conto che si trattava, allora, di semplificare
le istituzioni parlamentari per dare più forza alla rappresentanza democratica
e fare del Parlamento il centro della vita politica (si parlava di “centralità
del Parlamento”). La visione era quella della democrazia partecipativa o, nel
linguaggio di Ingrao, della “democrazia di massa”. Oggi è tutto il contrario:
si tratta di consolidare il primato dell’esecutivo emarginando la rappresentanza,
in quanto portatrice di autonome istanze democratiche. (…)
11. Diranno che siamo come i ciechi
conservatori che hanno paura del nuovo, anzi del “futuro-che-è-oggi”, e sono
paralizzati dal timore dell’ “uomo forte”
Noi diciamo che a noi non interessano “riforme”
che riforme non sono, ma sono “consolidazioni” dell’esistente: un esistente che
non ci piace affatto perché portatore di disgregazione costituzionale e di latenti
istinti autoritari. Questi istinti non si manifestano necessariamente
attraverso l’uso esplicito della forza da parte di un “uomo forte”. Questo
accadeva in altri, più primitivi tempi. Oggi, si tratta piuttosto
dell’occupazione dei posti strategici dell’economia, della politica e della
cultura che forma l’ideologia egemonica del momento. Questo è ciò che sta
accadendo manifestamente e solo chi chiude gli occhi e vuole non vedere, può
vivere tranquillo. Si tratta, per portare a compimento questo disegno, di
eliminare o abbassare gli ostacoli (pluralismo istituzionale, organi di
controllo e di garanzia) che frenano il libero dispiegarsi del potere che si
coagula negli organi esecutivi. Non occorre eliminarli, ma normalizzarli,
ugualizzarli, standardizzarli, il che significa l’opposto del far opera
costituente.
12. Diranno che siamo per
l’immobilismo, cioè che difendiamo l’indifendibile: una condizione della
politica che non ha mai toccato un punto così basso in tutta la storia
repubblicana, mentre loro vogliono rianimarla e rinnovarla
Noi opponiamo una classica domanda alla
quale i riformatori costantemente sfuggono: sono più importanti le istituzioni
o coloro che operano nelle istituzioni? La risposta, che sta non solo in
venerandi scritti sulla politica e sulla democrazia – che i nostri riformatori,
con tranquilla e beata innocenza mostrano d’ignorare completamente – ma anche
nelle lezioni della storia, è la seguente: istituzioni imperfette possono
funzionare soddisfacentemente se sono in mano a una classe politica degna e
consapevole del compito di governo che è loro affidato, mentre la più perfetta
delle costituzioni è destinata a funzionare malissimo in mano a una classe
politica incapace, corrotta, inadeguata. Per questo noi diciamo: non accollate
a una Costituzione le colpe che sono vostre. (…)
13. Diranno: non ve ne va bene una; la
vostra è una opposizione preconcetta. Non siete d’accordo nemmeno
sull’abolizione del Cnel e la riduzione dei “costi della politica”?
Noi diciamo: qualcosa c’è di ovvio, su cui
voteremmo pure sì, ma è mescolato, come argomento-specchietto, per far passare
il resto presso un’opinione pubblica orientata anti-politicamente. A parte il
Cnel, che in effetti s’è dimostrato in questi anni una scatola quasi vuota, la
riduzione dei costi della politica avrebbe potuto essere perseguito in diversi
altri modi: riduzione drastica del numero dei deputati, perfino abolizione pura
e semplice del Senato in un contesto di garanzie ed equilibri costituzionali
efficaci. Non è stato così.
Si è voluto poter disporre d’un argomento demagogico
che trova alimento nella lunga tradizione antiparlamentare che ha sempre
alimentato il qualunquismo nostrano. Avere unificato in un unico voto
referendario tanti argomenti tanto diversi (forma di governo e autonomie
regionali) è un abile trucco costituzionalmente scorretto, che impedisce di
votare sì su quelle parti della riforma che, prese per sé e in sé, risultassero
eventualmente condivisibili. Voi dite di voler combattere l’antipolitica, ma
proprio voi ne esprimete l’essenza. (…)
14. Diranno: come è possibile
disconoscere il serio lavoro fatto da numerosi esperti, a incominciare dai
“saggi” del presidente della Repubblica, passando per la Commissione
governativa, per le tante audizioni parlamentari di distinti costituzionalisti,
fino ad approdare al Parlamento e al ministro competente per le riforme
costituzionali. Tutto ciò non è per voi garanzia sufficiente d’un lavoro
tecnicamente ben fatto?
(…) Le questioni costituzionali non sono
mai solo tecniche. A ogni modifica della collocazione delle competenze e delle
procedure corrisponde una diversa allocazione del potere. Nella specie, ciò che
si sta realizzando, per l’effetto congiunto della legge elettorale e della
riforma costituzionale, è l’umiliazione del Parlamento elettivo davanti
all’esecutivo; l’esecutivo, un organo che, non essendo “eletto”, potrà derivare
dall’iniziativa del presidente della Repubblica che, dall’alto, potrà manovrare
– come è avvenuto – per ottenere la fiducia della Camera. Quanto poi alla bontà
del testo di riforma dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio,
la definizione delle competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera
e dal Senato (sì, il Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda
Camera non si arenerà su un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera
daranno luogo a numerosi conflitti): “La funzione legislativa è esercitata
collettivamente dalle due Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione
e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle
disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche,
i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per
le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi
di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e
le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge
che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione
dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche
dell’Unione europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di
incompatibilità con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e
per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114,
terzo comma, 116 terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120,
secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Quanto poi alla bontà del testo di riforma
dal punto di vista tecnico, ci limitiamo a questo esempio, la definizione delle
competenze legislative da esercitare insieme dalla Camera e dal Senato (sì, il
Senato rimane, il bicameralismo anche e, se la seconda Camera non si arenerà su
un binario morto, i suoi rapporti con la prima Camera daranno luogo a numerosi
conflitti): “La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due
Camere per (sic!) le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi
costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali
concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le
altre forme di consultazione di cui all’art. 71, per le leggi che determinano
l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni
fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di
principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le
norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla
formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione
europea, per quella (?) che determina i casi di ineleggibilità e di incompatibilità
con l’ufficio di senatore e di cui all’art. 65, primo comma, e per le leggi di
cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116
terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma,
122, primo comma, e 132, secondo comma”.
Un pasticcio dell’ultima ora che darà filo
da torcere a che dovrà darne attuazione: parallele convergenti, quadratura del cerchio… Agli autorevoli
fautori di norme come queste, citate qui a modo d’esempio chiediamo
sommessamente: dite con parole vostre e con parole chiare che cosa avete voluto. (…) Questi
tecnici non hanno dato il meglio di sé, forse perché hanno dovuto nascondere
nell’oscurità l’assenza di chiarezza
che ha regnato nella testa di coloro che hanno dato loro il mandato di scrivere
queste norme. Loro non lo diranno, ma lo diciamo noi. Nella
confusione, una cosa è chiara: l’accentramento a favore dello Stato a danno delle Regioni e,
nello Stato, a favore dell’esecutivo a danno dei cittadini e della loro
rappresentanza parlamentare. Orbene, noi della Costituzione abbiamo un’idea
diversa: patto solenne che unisce un popolo sovrano che così sceglie come stare
insieme in società.
“Unisce”? Questa riforma non unisce ma divide. Non è una costituzione, ma una
s-costituzione. “Popolo
sovrano”?
Dov’è oggi svanita la sovranità, quella
sovranità che l’art. 1 della Costituzione pone nel popolo e che l’art. 11
autorizza bensì a “limitare”, ma precisando le condizioni (la pace e la
giustizia tra le Nazioni) e vietando che sia dismessa e trasferita presso
poteri opachi e irresponsabili? È superfluo ripetere quello che da tutte le
parti si riconosce: per molte ragioni, il popolo sovrano è stato spodestato. Se
manca la sovranità, cioè la libertà di decidere da noi della nostra libertà,
quella che chiamiamo costituzione non più è tale. Sarà, al più, uno strumento
di governo di cui chi è al potere si serve finché è utile e che si mette da
parte quando non serve più. La prassi è lì a dimostrare che proprio questo è
stato l’atteggiamento sfacciatamente strumentale degli ultimi anni: la Costituzione
non è stata sopra, ma sotto la politica e perciò è stata forzata e disattesa
innumerevoli volte nel silenzio compiacente della politica, della stampa, della
scienza costituzionale. Ora, la riforma non è altro che la codificazione di
questa perdita di sovranità. Apparentemente, la vicenda che stiamo vivendo è
una nostra vicenda. In realtà, chi la conduce lo fa in nome nostro ma, invero,
per conto d’altri che già hanno fatto il bello e il cattivo tempo nei Paesi
economicamente, politicamente e socialmente più deboli e s’apprestano a
continuare. Per questo, chiedono governi che non abbiano da dipendere dai
parlamenti e, ove sia il caso, dispongano di strumenti per mettere i parlamenti,
rappresentativi dei cittadini, nelle condizioni di non nuocere.
Seguiamo questa concatenazione: la Costituzione
è espressione della sovranità; se manca la sovranità, non c’è costituzione. La
Costituzione e il Diritto costituzionale, con la sedicente riforma
costituzionale, s’avviano a mantenere il nome, ma a perdere la cosa. L’impegno
per il No al referendum ha, nel profondo, questo significato: opporsi alla
perdita della nostra sovranità, difendere la nostra libertà. Post scriptum:
C’è poi ancora un altro argomento che, per la sua stupidità, abbiamo esitato a
inserire nella lista di quelli meritevoli d’essere presi in considerazione. È
già stato usato ed è destinato a essere ripetuto in misura proporzionale alla
sua insensatezza. Per questo, non lo ignoriamo semplicemente, come forse
meriterebbe, ma lo collochiamo alla fine, a parte.
15. Diranno: sarà divertente vedere
dalla stessa parte un Brunetta e uno Zagrebelsky
Noi diciamo: non fate torto alla vostra intelligenza.
Come non capire che si può essere in disaccordo, anche in disaccordo profondo,
sulle politiche d’ogni giorno, ma concordare sulle regole costituzionali che
devono garantire il corretto confronto tra le posizioni, cioè sulla democrazia?
In verità, chi pensa di vedere in questa concordanza un motivo di divertimento,
e non una seria ragione per dubitare circa il valore dei cambiamenti
costituzionali in atto, non fa che confessare candidamente un suo retro-pensiero.
Questo: che tra una Costituzione e una legge qualunque non c’è nessuna
differenza essenziale; che, quindi, se sei in disaccordo politico con qualcuno,
non puoi essere in accordo costituzionale con lui, perché tutto è politica e
nulla è costituzione. A noi, questo, non sembra un modo di pensare
rassicurante.
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