da: http://www.glistatigenerali.com/
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di Christian Elia
La sensazione è quella di un amico che ti
gioca un tiro mancino. Perché, alla fine, mentre l’esecutivo italiano dice e smentisce, annuncia e ridimensiona, da Washington lanciano una bordata. Che
agli osservatori più avvezzi alla realpolitik sembra voluta, ma che non lascia
indifferenti neanche quelli che credono alla buona fede.
“L’Italia, essendo così vicina, ha offerto
di prendere la guida in Libia. E noi abbiamo già promesso che li appoggeremo
con forza”, ha dichiarato Ash Carter, Segretario di Stato Usa alla Difesa.
La Libia è vicina, la guerra anche.
L’elemento importante rispetto alla questione libica negli ultimi giorni è un
sostanziale svelamento. Da tempo operano sul terreno unità speciali che stanno
facendo quel che fanno sempre le unità speciali: preparano l’attacco in forze.
Rilievi sul territorio, informazioni di
intelligence, se possibile eliminazione di elementi sgraditi, consistenza e
posizione degli attori sul terreno e via così. Allo stesso tempo, però, il tiro
mancino è nelle parole scelte dall’amministrazione Obama per parlare del ruolo
italiano.
Badate bene, che le parole sono importanti
in politica estera. E’ l’Italia che chiede un ruolo guida nella futura missione
in Libia, e i magnanimi Stati Uniti lo concedono, come il vecchio feudatario,
rispetto al vassallo locale.
Quanta distanza dal tono dell’annuncio
della concessione della base militare di Sigonella.
“L’autorizzazione verrà data caso per caso”, spiegava il premier italiano
Matteo Renzi ai microfoni di Rtl 102-5. “Se ci sono evidenze del fatto che
attentatori preparano un attacco, l’Italia farà la sua parte come tutti gli
altri”.
Al netto della gravità del fatto che
l’opinione pubblica italiana e il Parlamento di Roma vengano a conoscenza
dell’autorizzazione concessa al decollo di droni d’attacco a gennaio solo un
mese dopo, e dal Wall Street Journal,
resta il passaggio di livello operativo della missione in Libia.
Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni,
precisava come “la concessione di Sigonella non è un preludio a un attacco
militare”. Il ministro della Difesa, Roberta Pinotti,
conferma: “ I droni armati americani sono pensati non solo in funzione
della Libia, ma per la protezione degli assetti e del personale americano e
della coalizione in tutta l’ area. Non è una decisione legata a
un’accelerazione sulla Libia”.
Tutto l’esecutivo
italiano, insomma, si muove su tre principi chiave: non stiamo andando in guerra, ospitiamo
gli alleati, collaboriamo con loro e
ci ‘difendiamo’ dagli attacchi
terroristici. Un profilo basso, difensivo, da alleati affidabili. Tutti
ribadiscono: l’opzione diplomatica resta la preferita.
Ecco perché l’uscita dell’amministrazione
Obama, che non avrà apprezzato comunque l’uscita della Pinotti che praticamente
confermava pubblicamente la presenza di elementi Usa sul terreno in Libia, ha
lanciato un messaggio chiaro a Roma: ci siete, e ci siete fino in fondo. E ci
siete perché siete voi che ci volete essere.
Come potrebbe essere altrimenti, d’altronde?
Il legame economico – energetico tra Italia e Libia è molto più che strategico,
è vitale. La Francia, da decenni, prova a prendere quel posto che rispetto a
Tripoli Roma ha occupato da sempre.
L’ansia dell’esecutivo italiano è quella:
dover difendere la posizione di leader sulla questione libica, ma allo stesso
tempo non assecondare nell’opinione pubblica interna la consapevolezza del
fatto che la missione militare in Libia esporrà il paese alla reazione di Daesh
e degli squilibrati che si rifanno al brand Stato Islamico.
Perché fino a oggi, l’Italia si è tenuta
lontana dai teatri caldi, al contrario della Francia, che ha rappresentato un bersaglio del
terrorismo anche perché ha elevato in modo esponenziale la sua presenza
militare in Medio Oriente e in Africa.
A Parigi, questo ormai è chiaro a tutti, il
presidente Francois Hollande ha una sola speranza di essere rieletto ed è
quella di accreditarsi come ‘presidente di guerra’. Il premier italiano Matteo
Renzi, invece, la guerra la eviterebbe volentieri, ma i nodi di una politica
estera italiana confusa sono venuti al pettine.
Da un lato i vertici militari, con il
gen.Serra che dovrebbe prendere il comando, spingono da un lato, dall’altro
l’esecutivo che fino all’ultimo spinge per la cornice Onu e per l’accordo di
unità nazionale tra i due governi libici e comunque chiede almeno una
‘chiamata’ del governo di unità nazionale.
Capita la dinamica dell’accelerazione di
queste ore, resta da capire quando partirà l’azione, che durata avrà e come
impatterà sulla situazione libica. E qui la storia si complica.
Sul terreno, in Libia, operano decine di milizie.
Ciascuna ha degli sponsor, un’agenda, e le alleanze sono molto liquide,
in base alle convenienze del momento. Un mosaico così opaco, un teatro denso di
armi, non è lo scenario ideale per un’operazione militare. Perché rischia di
non risolvere nulla.
A sentire Washington e Roma, l’obiettivo
tutto sommato sarebbe solo Daesh, ma è un modo distorto di presentare la realtà
Perché se è vero che alcuni miliziani si sono detti fedeli al Califfo, riprendedone
discorso pubblico e iconografia, non è oggi Daesh che rappresenta l’elemento di
instabilità maggiore.
A Daesh è, più o meno, riconosciuto il
controllo di Sirte e di alcuni quartieri di Derna, Bengasi, Ajdabiya, Sabrata.
Un pezzo, ma solo uno, del mosaico libico. Le truppe fedeli al generale Haftar
e al governo di Tobruk, appoggiate dall’Egitto, controllano la parte orientale
del Paese e una zona al confine con la Tunisia, dall’altra parte. Per finire
con le tribù che controllano largamente la zona sud-occidentale. Al governo di
Tripoli, poi, resta il controllo di una parte occidentale del paese.
Insomma un nemico, uno solo, un unico
responsabile del caos libico, facilmente riconoscibile, non esiste.
Non è un caso che sarebbe bastato un accordo tra i due governi per schiacciare con ogni possibilità Daesh. Perché allora un intervento militare internazionale? Perché non costringere le due parti a collaborare a tutti i costi?
Non è un caso che sarebbe bastato un accordo tra i due governi per schiacciare con ogni possibilità Daesh. Perché allora un intervento militare internazionale? Perché non costringere le due parti a collaborare a tutti i costi?
E’ evidente che ormai la linea scelta è
quella della tutela militare di uno dei tanti stati senza stato, stateless, che
caratterizzano il mondo post Guerra Fredda e post guerra al terrorismo. Perché
Daesh non c’entra nulla con le divisioni tribali, le fazioni politiche e le
mille milizie libiche. Bombardare non risolverà il problema, andare sul terreno
non risolverà le divisioni della Libia. Ma è un ottima scusa per imporre la
presenza occidentale in Libia.
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