martedì 1 marzo 2016

"No all'utero in affitto": e non lo dicono solo i cattolici



da: http://www.famigliacristiana.it/

Vendola e il suo compagno annunciano di essere finalmente padri attraverso una madre surrogata. C'è un tema che unisce mondi solitamente lontani come il femminismo e quello dei valori cristiani. E' la condanna della pratica dell'utero in affitto e la certezza che un figlio non è un diritto.
di Orsola Vetri

“Un figlio non è un diritto” questo semplice slogan per una rara volta mette d’accordo mondi apparentemente lontani, come il femminismo laico e tendenzialmente di sinistra e quello dei valori cattolici. Un pensiero che ha avuto inizio in Francia e che sta raccogliendo consensi anche in Italia. Il nemico comune è l’utero in affitto, complessa pratica riproduttiva che permette a chi non può, o peggio ancora a chi non ha voglia di affrontare nove mesi di gravidanza, di mettere al mondo un figlio utilizzando come un’incubatrice l’utero di una donna che non sarà mai colei che crescerà il bambino che ha portato in grembo.

In una petizione lanciata dalle donne del movimento Senonoraquando, e pubblicata sul sito Che libertà si legge una dura condanna: «il percorso di vita che una donna e il suo futuro bambino compiono insieme è un’avventura umana straordinaria. I bambini non sono cose da vendere o da “donare”. Se vengono  

programmaticamente scissi dalla storia che li ha portati alla luce e che comunque è la loro, i bambini diventano merce». Parole che uniscono donne e uomini provenienti da ambienti diversi e lontani per molti altri aspetti, concordi però nel giudicare questa pratica l’ultima frontiera dello sfruttamento del corpo femminile. Sfruttamento reso ancora più odioso e intollerabile quando si percepisce che la soluzione del desiderio di una genitorialità, altrimenti impossibile, avviene più facilmente attraverso il denaro. Così da diventare realizzabile solo a pochi privilegiati.

Come Nicky Vendola, governatore della Puglia e leader della nostra sinistra più estrema la cui neo paternità è in questi giorni al centro di aspri dibattiti. Vendola da sempre ha esternato il suo legittimo desiderio di paternità e oggi parla di una storia d’amore, che nessuno intende mettere in dubbio, per giustificare il ricorso all’utero in affitto. Ma resta il fatto che per questo grande amore, insieme al suo compagno, non ha esitato a usare il corpo di una donna e, anche se non in maniera diretta a "comprare" un bambino.

E non importa se non si tratta dello sfruttamento abominevole che Famiglia Cristiana ha più volte denunciato, quello delle donne nel Terzo mondo, in particolare in India, che ricevendo pochi dollari al mese sfornano neonati per coppie, etero e omosessuali, di ricchi occidentali. Vendola forse si giustifica e si assolve perché per lui tutto è avvenuto in un Paese ricco e civile, in Canada, e per questo parla di una madre surrogata senza problemi economici, in pratica una benefattrice che ha fatto dono di nove mesi della sua vita e del suo corpo per regalare a una coppia innamorata il sogno della vita.

Ma è proprio la parola dono che stride in questa storia. Perché il figlio in quanto dono, i cristiani lo sanno bene, è quanto di più lontano da un bambino nato da una madre surrogata. E il concetto di “surrogata” si addice ancora meno a quello di madre. Significa voler dimenticare, a volte per motivi puramente ideologici, quanto sia importante e profondo il legame che unisce una donna al bambino che porta in grembo e significa ridurre il ruolo della madre a qualcosa di inesistente, a un semplice mezzo mentre, sappiamo quanto per ogni essere umano, comunque vada e qualunque strada prenda la sua esistenza, sia fondamentale l’origine della sua vita.

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