da: http://www.glistatigenerali.com/
- di
Michele Fusco
Mi presento. Sono un manager, tra i quaranta e i cinquanta, una certa esperienza
sia nel privato sia nel pubblico, buoni studi italiani e poi, come dev’essere,
i classici master all’estero. Da oggi, nel
curriculum inserirò una voce fondamentale: «Devo ancora conoscere Matteo Renzi». Non vi appaia una
sottolineatura stravagante, né tantomeno una pretesa illiberale, è
semplicemente un’indicazione di massima per il mio (futuro) datore di lavoro.
Il quale avrà tutto il diritto di sapere che il professionista che gli è stato
segnalato e su cui ha messo gli occhi non ha mai incrociato nella sua vita il
presidente del Consiglio (ma niente può escludere che questo evento fortunato
prima o poi possa accadere). Mi costringo a questa serie di precisazioni non
solo perché mantengo ancora una certa dignità, ma anche e soprattutto perché da
un certo tempo in qua mi appare chiaro che la conoscenza più o meno diretta del
premier, aver lavorato con lui a Firenze, insomma essergli stato vicino
professionalmente, produce nell’interessato il classico meccanismo difensivo
per cui, nel momento alto e nobile delle scelte dei manager di stato, Matteo
Renzi chiama alla patria soltanto le sue nuove/vecchie conoscenze.
Per essere abbastanza tranquillo nella mia
umilissima denuncia, ho voluto scorrere il Sole
24 Ore che sulle sue pagine parlava ampiamente della rivoluzione Ferrovie dello Stato, dove l’intero Cda è stato
gentilmente “invitato” a dimettersi per dare spazio al novo corso dell’azienda.
È stato un meccanismo un po’ tranchant, ma Elia,
il vecchio ad, non voleva schiodare e dunque si è scovato questo escamotage
che naturalmente ha trovato tutti i consiglieri allineati e coperti. Del Rio, il ministro, e Renzi stesso si
sono venduti l’operazione con la fretta di dare un nuovo impulso alla
futura privatizzazione, ma il Sole 24 Ore non se l’è bevuta: «La rapidità con
cui il governo ha indotto il cda a dimettersi in blocco – scrive
nell’editoriale Giorgio Santilli – conferma che l’obiettivo di palazzo Chigi
era in prima battuta il ricambio del vertice del gruppo Fs, mentre l’avvio
formale della privatizzazione, in assenza di una linea chiara e univoca dentro
l’esecutivo, soltanto un paravento strumentale all’avvicendamento.
La curiosità, naturalmente, mi ha portato a
pagina 3 del quotidiano di Confindustria, dove campeggiavano i curricula
dell’ancora presunto presidente, Gioia
Ghezzi, e del praticamente certo, visto che se ne parla da giorni,
amministratore delegato, Renato Mazzoncini.
Due nomi che questa mattina erano appena presunti, ma che in serata son
diventati certi e ufficiali. Parentesi: per uno strano caso del destino,
solo poche ore prima avevo incontrato
l’ex presidente di Trenitalia, scaduto da pochi mesi, al quale avevo
chiesto lumi sul peso dell’ingegner
Mazzoncini ricevendone la seguente risposta: «È il capo di BusItalia. Per
capirci: è come se il responsabile di un micro-negozietto in città, domani
venisse nominato capo di tutta l’Ikea. Questa è la proporzione tra BusItalia
e Ferrovie dello Stato, di cui Elia era amministratore delegato».
Con maggiore curiosità sono andato a leggere il curriculum di Mazzoncini,
che detto tra noi si rivela «normale». Come il mio, come quello di milioni di
dirigenti d’azienda. Tanto per essere chiari, «BusItalia Sita Nord», leggo dal
profilo aziendale, «è la società del Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane che
si occupa di trasporto persone con autobus». Autobus, quella roba lì, placida e
comodissima, dove ti butti in poltrona e schiacci un pisolino. Dicevo del
curriculum di Mazzoncini. A un certo punto, il Sole 24 Ore scrive: “… A
distanza di qualche mese dalla sua designazione al vertice di BusItalia Sita
Nord, l’incontro con l’allora sindaco di
Firenze, Matteo Renzi, per la privatizzazione dell’Ataf, l’azienda
tranviaria fiorentina…” Allo stesso modo, un profumino di Giglio magico si
sparge sulla presunta presidentessa, la Gioia
Ghezzi, che forse forse ha anche un curriculum più strutturato e complesso
del suo ad, ma che, come Mazzoncini, a un certo punto incrocia la strada del
presidentissimo, quando predispone “probono per il Comune di Firenze e per l’allora sindaco Renzi, un piano, insieme
all’associazione Lorenzo Guarnieri, per la sicurezza stradale del capoluogo
toscano”.
Le Ferrovie sono l’esempio più recente, ma
sento che quell’acqua di fonte delle pari opportunità non è più cristallina.
Ciò che all’inizio era una strana sensazione, e forse anche un’esigenza dei
primi mesi, e cioè quel circondarsi soltanto di persone conosciute, in qualche
modo fidate, sicure e amiche, anche a dispetto di professionalità esterne a
quella cerchia, con il passare del tempo si sta rivelando un meccanismo non
solo poco nobile, ma soprattutto professionalmente non all’altezza della grande
missione a cui è stato chiamato Matteo Renzi. Sono troppe le occasioni in cui
dobbiamo registrare una regressione etica da questo punto di vista, dai
nominati nei vari consigli di amministrazione, quello della Rai particolarmente
scandaloso, all’idea che i “leopoldini”
in qualche misura abbiano comunque una wild card da spendere, persino dalle
prime nomine Rai che assomigliano in modo impressionante alla pratica del
“panino” nei tg, quella roba lì per sfamare la politica. E così il Campo dall’Orto da una parte ti nomina Verdelli
a direttore editoriale, un esterno di valore, e poi subisce (subisce?) un funzionario di partito come capo ufficio
stampa, Luigi Coldagelli del Pd, che peraltro sostituisce il suo
precedessore Casinelli piazzato lì all’epoca da Forza Italia.
Insomma, noi manager “che non abbiamo ancora conosciuto Matteo Renzi” vorremmo
tanto le stesse opportunità di chi ci ha già avuto a che fare. Per vedere chi è
più bravo e si merita quel posto.
Ps.
Questa è uno sfogo raccolto per strada da un manager anche un po’ incazzato. Ci
sembrava utile raccontarlo qui.
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