da: http://www.glistatigenerali.com/
Cari
colleghi giornalisti, quanto conformismo su Marino
Riceviamo
e pubblichiamo una lettera
di Fabio Martini, inviato de La Stampa, a Gli Stati Generali. La lettera
contiene una riflessione sul modo
in cui i giornalisti italiani hanno affrontato il caso Marino.
Cari colleghi, ora che l’esperienza
amministrativa del sindaco di Roma si è chiusa, si può provare a rileggere
questa vicenda con la testa fredda. Una riflessione dovrebbe riguardare
anzitutto chi ha raccontato questa storia. Dobbiamo dircelo senza enfasi e con
sincerità: mai come stavolta noi giornalisti abbiamo fatto “massa acritica”,
producendo un’informazione uniforme e unilaterale. Intendiamoci, resta e a
lungo resterà controversa la figura di Ignazio Marino, un sindaco che, assieme
a virtù in parte misconosciute, ha mostrato anche diversi limiti, a cominciare
da un autolesionismo fuori controllo. Eppure, se si ripercorrono a ritroso gli
snodi fondamentali di questa storia, si resta sbalorditi. Ogni giorno e in ogni
occasione, per giornali e tv il sindaco outsider aveva sempre torto e ogni
volta avevano automaticamente ragione tutti i suoi detrattori: il presidente
del Consiglio, il ministro dell’Interno, il prefetto di Roma, il Papa, gli
spodestati poteri forti della Capitale. Dubbi?
Semplici domande fuori dal
mainstream? Difficile ricordarne. Un intellettuale appartato come Claudio
Magris è arrivato a definire questo atteggiamento «una vigliaccata repellente»,
con un uomo inseguito da «una canea coatta e gregaria».
Difficilissimo capire se siamo agli albori
di una nuova stagione, ma nella costruzione del “mostro” e nell’oscuramento
sistematico delle sue ragioni ci sono tracce di un fenomeno da scrutare con
attenzione: il populismo mediatico sta approdando ai “piani alti” del sistema
dei media. Naturalmente non sono mancate significative eccezioni –
nell’informazione via web, in quella cartacea, in quella televisiva – ma se ci
riferiamo al “grosso” del sistema, stavolta il quadro appare piuttosto
uniforme. Come dimostra l’analisi dei passaggi chiave di questa vicenda.
Da quando entra in Campidoglio, era
l’estate del 2013, e poi per un anno e mezzo, Ignazio Marino prova a
destrutturare, o almeno a contenere, i gruppi di potere che da decenni
condizionavano la vita della città: i partiti e le loro clientele; i
monopolisti dei rifiuti e del cemento; le cooperative “sociali” di destra e di
sinistra; i sindacati dei dipendenti comunali e dei vigili. Tra tutte queste
lobbies e il sindaco inizia subito un duro scontro, con scioperi selvaggi,
insulti, minacce, uno scontro del quale i mass media nazionali si
disinteressano. Mentre le cronache locali preferiscono puntare il dito su
alcune indubitabili gaffes del sindaco, glissando invece sulla direzione di
marcia, controversa ma innovativa. Nel marzo del 2015 il Papa annuncia a
sorpresa un nuovo Giubileo: da quel momento si accendono i riflettori nazionali
e la storia cambia di segno.
Nelle prime riunioni operative sull’Anno
santo, con Comune e Vaticano, il governo prende tempo. In quel momento sarebbe
stato possibile cominciare a chiedersi: come mai Renzi rinvia e non concede un
solo euro per il Giubileo? Sta forse iniziando un assedio, che punta a prendere
per “fame” il sindaco marziano? Il 15 giugno, al secondo turno delle
amministrative, il Pd subisce una battuta d’arresto e il presidente del
Consiglio innesca una escalation verbale: «Se fossi Marino, non starei
tranquillo», «se sa farlo, governi Roma, sennò a casa». Un lessico “pop” e una
brusca ingiunzione di sfratto dall’alto: atteggiamenti irrituali per un capo di
governo. Anche in questa occasione i mass media avrebbero potuto farsi due
domande semplici: con una capitale infiltrata dalla mafia, con un Giubileo
inatteso e con un bilancio lasciato in profondo rosso dai predecessori di
Marino, come mai il governo anziché dare una mano, inizia a destabilizzare il
sindaco della capitale d’Italia? Forse Renzi punta a sgombrare il campo e
“prendersi” i riflettori del Giubileo? Nessuno fa domande ma in compenso,
proprio in quelle ore, su alcuni grandi quotidiani, inizia una rappresentazione
apocalittica della vita quotidiana a Roma.
Il 23 agosto si svolgono i funerali-show
dei Casamonica. Si accerta subito che non esistono responsabilità soggettive al
Viminale, in Questura, in Prefettura. Ma la storia insegna: nel momento in cui
un caso circoscritto richiama i riflettori del mondo è inevitabile
che scatti la responsabilità oggettiva: non fu certo Vito Lattanzio a favorire
Herbert Kappler, ma dopo la fuga dal Celio dell’ex ufficiale delle Ss, il
ministro della Difesa fu costretto a dimettersi. E invece dopo il can-can
Casamonica, i media anziché richiamare la filiera-Viminale, fanno scatta l’ennesima
caccia al sindaco: dov’è Marino? Non conta che sui funerali il Comune non abbia
alcuna competenza e infatti nell’equivoco si inserisce anche il prefetto di
Roma Franco Gabrielli, alternando ironia («Ho sentito Marino fra un’immersione
e l’altra…») e avvisi: «Potrei sciogliere il Comune». A parte un commento
tagliente di Marco Travaglio, anche le esternazioni dell’altro funzionario
dello Stato passano inosservate. E le battute anti-Marino di papa Francesco? La
reazione istintiva dei media è quella di “criminalizzare” il sindaco,
ma nessuno cerca di rispondere alla domanda chiave: perché mai
tanta severità da parte del pontefice? Forse il Papa era restato male per le
unioni gay sottoscritte in Campidoglio da Marino, nel corso di un evento
festoso, per una volta dal sapore famigliare e senza esibizioni, di grande
umanità?
In conclusione, sarebbe ridicolo immaginare
che Palazzo Chigi abbia ordito un complotto in combutta col mondo
dell’informazione. Matteo Renzi con le sue esternazioni hard, come al solito,
ha agito allo scoperto, ci ha messo la faccia. I media lo hanno seguito, senza
farsi tante domande. I giornalisti italiani, si sa, non amano i predestinati
alla sconfitta ma l’approccio uniforme sulla vicenda Marino segnala una novità
rispetto al passato: il sistema del mass media ha fatto propria la tecnica del
“capro espiatorio”, l’outsider da gettare in pasto all’opinione pubblica. Una
tecnica tipica dei leader populisti. Ma l’Italia di tutto sembra aver bisogno,
tranne che di un diffuso populismo mediatico.
Fabio Martini, inviato de La Stampa
Nessun commento:
Posta un commento