da: http://www.glistatigenerali.com/
- di
Fabio Salamida
Le agenzie di stampa turche parlano di
almeno sei i bambini annegati al
largo delle coste occidentali del paese, dopo che nella giornata di ieri le
precarie imbarcazioni su cui viaggiavano per raggiungere la Grecia sono
affondate. Il mare ha restituito i piccoli corpi di quattro di loro,
spiaggiandoli nei pressi della località di Ayvacik. Il gommone su cui
viaggiavano era troppo carico e non ha retto. Troppi quei cinquantacinque
disperati sulla rotta per Lesbo.
Altri due bambini, di origine siriana,
rispettivamente di uno e quattro anni, sono invece morti in seguito al naufragio
del barcone su cui si trovavano a largo di Bodrum. La destinazione del viaggio
in questo caso era Kos. Gli altri diciassette passeggeri sono stati recuperati
sani e salvi.
È sempre di oggi la notizia che il Canada
avrebbe concesso il diritto di asilo alla famiglia di Aylan Kurdi, il
bimbo siriano di tre anni annegato a settembre con la mamma e il fratello
mentre cercava di raggiungere la Grecia su un barcone. Per chi soffre di
memoria corta, Aylan era il soggetto di quella foto di
cui si è tanto discusso, il suo corpo senza vita è stato
fotografato sulla spiaggia di Bodrum scuotendo l’opinione pubblica di tutto
l’occidente.
Per queste ultime due stragi,
sfortunatamente, non abbiamo foto di quel tipo.
Ma dato che noi europei ci
vantiamo tanto di essere “la culla della civiltà e del pensiero”, sforziamoci
per qualche attimo e proviamo a immaginare quei sei cadaveri. Sono immobili, il
colorito della loro pelle tende al viola e i loro corpi sono sformati e gonfi
d’acqua. Immaginiamo ora i loro genitori, la disperata ricerca dei loro
piccoli negli attimi successivi al naufragio, la loro disperazione nel non
trovarli più, le inutili bracciate nell’acqua gelata. Già che ci siamo,
proviamo anche a sentire il freddo fin dentro le ossa, magari aiutandoci
aprendo per qualche attimo una finestra di casa.
La triste verità è che i corpi di quei sei
bambini annegati come il piccolo Aylan non faranno il giro del mondo e non si
scatenerà alcuna polemica sull’opportunità o meno di pubblicare sui giornali
gli scatti dei loro cadaveri. La loro fine non sarà dunque “nobilitata” dal
chiacchiericcio di noi privilegiati perché nessuna “fortunata” fotografa si è
trovata lì sul posto come accadde a Nilüfer Demir, la fotoreporter
dell’agenzia turca Dogan, che dichiarò in un’intervista di “essere
venuta al mondo per scattare quelle foto e per scrivere quella storia”.
Un peccato, perché in questa nostra società
regredita dove la plebe guarda solo le figure e non legge volentieri più di
centoquaranta caratteri, le immagini di quei sei corpi avrebbero potuto
svolgere una funzione educativa e sarebbero diventate dei simboli, magari
solo per qualche giorno, come quella del giovanissimo siriano annegato a
settembre. Forse avrebbero persino raccontato a qualche mente non ancora
del tutto compromessa dall’idiozia che su quelle imbarcazioni non ci sono i
terroristi del Bataclan, ma eserciti di disperati in fuga da quei medesimi
criminali.
Sì, davvero un peccato. Senza le loro foto
simbolo, quei sei bimbi affogati – quattro afghani e due siriani – sono solo
gli ennesimi morti anonimi già finiti in un dimenticatoio ancora più profondo
del mare che li ha inghiottiti. Lo stesso dimenticatoio in cui finiscono tutte
le vittime di questa guerra che ci ostiniamo a non voler vedere, se
non quando arriva nelle città dove ci scattiamo i selfie o quando una
“fortunata” fotografa riesce per caso a immortalarla su una spiaggia.
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