da: Il Fatto Quotidiano - di Tomaso Montanari
C’è ancora qualcuno che crede alla favola delle banche mecenati dell’arte, amiche della cultura, costruttrici di civiltà? Certo, è un mito un po’ invecchiato se per difenderlo bisogna sempre invocare il mito del Rinascimento “creato ” dalla banca dei Medici. E il punto non è tanto che è un po’ curioso difendere il presente attraverso un caso di mezzo millennio fa, quanto che allora l’urgenza morale, la spinta interiore, di Cosimo il Vecchio era quella di restituire alla collettività un denaro che sentiva di averle sottratto. Mentre oggi, al contrario, le banche massimizzano i profitti calpestando allegramente l’interesse pubblico. Ultimo, clamoroso caso: Banca Intesa che vende il Monte di Pietà di Napoli, ricevuto in dote con tutto il patrimonio del Banco di Napoli.
C’è una buona dose di ironia, in tutto questo: visto che il Monte di Pietà nasce (nel 1539) per offrire prestiti su pegno senza interessi.
Ora a pagare un interesse altissimo su questa storia di coesione sociale è la città di Napoli, che rischia di perdere un pezzo straordinario del suo corpo, conficcato nei Decumani, carico di storia e di arte: scandito dai monumenti e dalle pitture di Pietro Bernini, Belisario Corenzio, Battistello Caracciolo, Cosimo Fanzago, Giuseppe Bonito, Francesco De Mura e moltissimi altri. Una pietra miliare nella storia del credito, e della sua funzione sociale, una storia in cui miseria e nobiltà, disperazione e generosità si intrecciano in modo indissolubile:
e forse proprio per questo ormai estranea a un mondo bancario che di sociale (anzi, di umano) non ha davvero più nulla. Ci sarà tempo per interrogarsi sulla strategia di Intesa San Paolo, che fonda le pompose Gallerie d’Italia e poi mette sul mercato pezzi unici d’Italia, avviandoli alla privatizzazione, alla lottizzazione, alla rimozione dalla storia e dalla cultura collettiva.Ora, però, la priorità è salvare il Monte di Pietà: come chiede la Napoli che da giorni manifesta per strada, cercando disperatamente di attirare l’attenzione di un Paese che si è appena messo nelle mani del Banchiere per eccellenza. La prima cosa che il Ministero della Cultura dovrebbe fare, sarebbe applicare l’articolo 56 del Codice dei Beni Culturali negando a Intesa San Paolo l’autorizzazione a vendere un bene che è ancora sostanzialmente demaniale: infatti, quando (nel 2002) Banca Intesa (soggetto privato) ha ereditato il Monte di Pietà dal Banco di Napoli (soggetto pubblico) l’edificio era già stato vincolato (nel 1995) come bene culturale, e quindi (nel 2003) le sue raccolte furono dichiarate indivisibili e inamovibili.
La via maestra è, allora, politica: con quale faccia il ministro Franceschini potrebbe ripresentarsi a Napoli dopo aver autorizzato una banca ricca e potente a privatizzare un luogo simbolo della cultura, della pietà, dell’arte partenopee? È dunque al vertice del Ministero della Cultura che devono indirizzarsi le trasparenti pressioni di chi ha a cuore il futuro di Napoli.
Una seconda cosa che bisogna chiedere, alla Soprintendenza di Napoli e alla Direzione Generale Archeologia e Belle Arti del Ministero, è quella di vincolare la destinazione del complesso: escludendo che vi si possano collocare alberghi o condomini di lusso o centri commerciali, legandolo invece a una destinazione non incompatibile con la sua storia, e cioè ad una destinazione culturale.
Infine, sul medio e lungo periodo la soluzione definitiva potrebbe venire da un acquisto pubblico: evidentemente per un prezzo tenuto ragionevolmente basso grazie al potere dello Stato di proibire la vendita a privati. Se il Ministero della Cultura lo comprasse, potrebbe unirlo al complesso dei Girolamini (che dista 400 metri, e dunque 5 minuti a piedi), appena divenuto istituto autonomo. Si verrebbe così a creare uno straordinario polo della cultura, dell’arte e della storia sociale della città di Napoli: un luogo in cui studiare e conoscere le forme assunte, tra Cinque e Settecento, dalla sollecitudine per la povertà materiale e spirituale della più grande metropoli italiana. Sarebbe anche un modo concreto, per il Ministero, di chiedere scusa a Napoli per il saccheggio della Biblioteca dei Girolamini scoperto nel 2012, e denunciato da chi scrive su questo giornale. Quel massacro fu possibile grazie alla cecità, alla pavidità e al servilismo dei vertici romani del Ministero: ed è giunta l’ora di riscattarsi.
Certo,
potrà sembrare paradossale che sia il tanto vituperato Stato a salvare un
monumento messo in pericolo dalla speculazione di una banca: la retorica
corrente vorrebbe che fosse vero esattamente l’inverso, e cioè che fossero le generose
e buone banche a soccorrere le esangui casse pubbliche, nell’interesse
generale. Ma è, appunto, vuota retorica: banche e banchieri non danno, ma
prendono. Non salvano nemmeno le loro stesse proprietà: figuriamoci un Paese.
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