mercoledì 26 maggio 2021

Le ombre nelle semplificazioni del governo Draghi sugli appalti

 


da: Domani - di Alberto Massera e Francesco Merloni

Per il momento il testo si pone in continuità con i governi di Conte nella ricerca di soluzioni emergenziali che non risolvono i problemi. L’aggiudicazione dell’appalto integrato è problematica rispetto al diritto Ue.

La bozza di decreto Semplificazioni del governo Draghi che sta circolando in questi giorni consente di fare qualche prima valutazione, in qualche caso preoccupata.

Va detto subito che la proposta dell’Antitrust di sospendere il Codice dei contratti non è stata accolta, si deve immaginare perché ci si è accorti che, almeno nell’immediato, l’applicazione diretta delle norme europee era un rimedio peggiore del male. La gran parte delle norme del decreto riguardano le fasi della programmazione, della localizzazione e della progettazione delle opere che abbiamo da sempre segnalato come le più critiche nell’allungamento dei tempi rispetto alla sola fase di gara. Si conferma cioè che non è nel codice dei contratti che si annidano i maggiori problemi.

I problemi del testo

Vanno segnalate alcune criticità, anche gravi, che il testo presenta, a partire dalla proroga per ben cinque anni (dal 2021 al 2026) delle norme emergenziali già contenute nel precedente dl Semplificazione del governo Conte. Innalzamento delle soglie

per gli affidamenti diretti e per le negoziazioni senza bando hanno un senso se si applicano per un tempo breve, che viene utilizzato per rafforzare la capacità delle stazioni appaltanti nel gestire bene l’intero ciclo del contratto.

Siamo invece in presenza di eccezioni, ampie e rilevanti, alla concorrenza tra le imprese e c’è da domandarsi se un così lungo periodo si concili con i principi del diritto Ue. Su questo piano, un tema particolarmente sensibile è quello della riduzione dei limiti al subappalto, a cominciare da quelli quantitativi.

Il codice dei contratti, con una normativa sovrabbondante (il triplo dei commi rispetto alla specifica disposizione della direttiva Ue), ha fissato limiti più volte contestati in sede europea. Nondimeno, essa deve continuare a dare garanzie che una pratica esasperata del subappalto non comprometta le fondamentali esigenze della garanzia della sicurezza dei lavoratori impiegati nei cantieri, della prevenzione alle infiltrazioni mafiose e ai rischi di collusione “anticipata” tra imprese in sede di partecipazione alla gara. La risposta quindi non è la sola rimozione dei limiti, ma bisogna fare affidamento sulle concrete scelte delle stazioni appaltanti, tenuto conto del mercato di riferimento, a tale scopo valorizzandone i necessari poteri di autorizzazione e controllo.

E invece, quanto alle stazioni appaltanti, siamo alla solita politica dei due tempi: nel decreto poche norme correttive sui requisiti formali che le stazioni appaltanti devono avere per ottenere la qualificazione, mentre rimane il rinvio al Dpcm (ancora da scrivere) per l’approvazione dei criteri e al futuro  lavoro di qualificazione dell’Anac (l’Agenzia nazionale anti corruzione). Mentre non si interviene, con urgenza, con politiche mirate di reclutamento di personale tecnico altamente qualificato, per rafforzare le capacità operative di quel limitato numero di stazioni appaltanti che potrebbero lavorare da subito al servizio soprattutto delle amministrazioni più piccole. Bastano 2mila tecnici per cambiare il segno e fare una vera semplificazione.

Un altro punto critico è l’eliminazione, in deroga, dei limiti al cosiddetto appalto integrato. Tale soluzione è sicuramente possibile: il diritto Ue non prescrive una aggiudicazione separata o congiunta della progettazione e della esecuzione delle opere; e dopo il codice del 2016, che lo vietava, sono state fortissime le pressioni per un suo pieno ripristino. Due sono i benefici rappresentati: l’effettiva riduzione dei tempi di svolgimento, con il vantaggio di fare affidamento sull’expertise dell’impresa; l’aggiudicazione del contratto con il metodo dell’offerta economicamente più vantaggiosa, che consente una maggiore attenzione alla qualità dell’opera. E si torna al punto cruciale: una stazione appaltante deve essere in condizioni di interloquire autorevolmente con l’impresa che redige il progetto, fino al potere di respingerlo se fatto male. Come dice il diritto Ue, la stazione appaltante deve essere in grado di esercitare una “influenza determinante” sul progetto, magari perché ha già raggiunto, grazie alle nuove tecnologie, un livello di progettazione elevato prima dell’affidamento del (solo) progetto esecutivo, oppure perché si ritiene in grado di reggere il confronto con le imprese in sede di gara anche ricorrendo a procedure veramente innovative come il dialogo competitivo (come ha fatto per esempio da ultimo una concessionaria del servizio ferroviario).

Ma è qui che c’è la sorpresa, in negativo, nella bozza di decreto, che smentisce le premesse: l’aggiudicazione dell’appalto integrato (comprendente anche la progettazione definitiva e non solo quella esecutiva) può avvenire con il criterio del massimo ribasso, che storicamente ha aperto la strada alla prassi perniciosa delle varianti (essa sì pericolosa per la conformità al diritto Ue) con le conseguenti ricadute negative quanto a tempi e costi degli interventi.

Insomma, c’è una sostanziale continuità tra lo “sblocca-cantieri” (Conte 1), le “semplificazioni 1” (Conte 2) e le “semplificazioni 2” (Draghi): la sfiducia nella capacità delle pubbliche amministrazioni, accompagnata dalla continua ricerca di soluzioni emergenziali che non risolvono i problemi.

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