da: Corriere della Sera
Un
giovane comune e speciale: combatteva una battaglia in cui tanti non riescono a
credere: l’Europa sì, ma soprattutto il futuro
di Paolo
Di Stefano
La morte di Antonio Megalizzi, il
giornalista ventinovenne la cui vita è rimasta in bilico per un paio di giorni,
ha risvegliato il lato buono degli italiani: non buonista, ma buono, quello
della compassione e di una partecipazione inusuale nel clima di cattiveria
crescente che secondo il Censis caratterizzerebbe l’Italia degli ultimi tempi.
Antonio non era un tipo comune, o meglio lo
era ma per tanti versi non lo era, eppure è riuscito a sollecitare una
commozione che continua a esprimersi, anche sui social, a distanza di due o tre
giorni dalla tragedia, tanti quanti di solito ci basterebbero per passare ad
altro (la prossima tragedia, la prossima commedia, la prossima farsa).
Era poco più che un ragazzo, Antonio, per
come intendiamo oggi le età della vita: nato a Reggio Calabria e trasferito a
Trento con la famiglia quando aveva cinque mesi. Era un giovane colto e
impegnato come non riusciamo più a immaginare i giovani: essendo, noi adulti,
più inclini a identificarli frettolosamente con l’immagine del disimpegno e
della sfiducia, cioè con i tratti che ci somigliano.
Per di più Antonio era impegnato in una
causa che i pessimisti danno per persa ma verso la quale Antonio aveva insolite
parole di speranza, persino di entusiasmo. Era un ottimista mite e sorridente,
che apparteneva alla generazione Erasmus, in fondo un sognatore talmente
sognatore da occuparsi per una radio universitaria di uno spettacolo
probabilmente noiosissimo come le sedute plenarie del Parlamento europeo.
Trasmetterle, commentarle con la convinzione di chi è sicuro di stare dalla
parte giusta nonostante lo scetticismo diffuso. Era un giovane entusiasta e
appassionato, che si dichiarava innamorato di un’idea: l’Europa.
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