da: la Repubblica – intervista a Luca Zingaretti di Dario Cresto-Dina
“Viaggio nel tempo e vorrei essere come Garibaldi”
La storia siamo noi, dice Luca Zingaretti richiamandosi a Francesco De Gregori, per spiegare la passione per la materia. La sua vita oltre la recitazione. Ma anche la semplicità che si intuisce dai suoi tratti, dai suoi modi di fare che sono di accoglienza. «Vengo da una famiglia della media borghesia romana. La nostra prima casa era in via della Magliana. Mia madre, donna estremamente vitale, lavorava all’Inail, è mancata lo scorso ottobre. Mio padre è stato funzionario alla Banca Commerciale Italiana. I miei si separarono quando avevo otto anni, ma da allora non è passato giorno in cui non si siano visti e telefonati almeno dodici volte. Si sono amati sempre, a debita distanza. Aquilino e Emma hanno avuto tre figli: Luca, Nicola e Angela. Le sembrerà ridicolo, ma siamo stati e siamo una famiglia molto unita».
Due episodi che resteranno per sempre nella sua memoria?
«Uno dei ricordi d’infanzia più dolorosamente nitido: sono nel corridoio di casa dei miei nonni materni, ci sono la mia tata storica, si chiamava Giuseppina, mio nonno paterno, mia zia Nicoletta, sorella di mia madre e altri adulti. Stanno tutti urlando. È il preludio alla separazione dei miei. Io in un angolo ascolto, vedo e mi spavento. Uno dei ricordi d’infanzia più felicemente nitido. Io che in spiaggia sono disteso sulla pancia di mia madre. Lei sta leggendo un libro e io fingo di dormire ma sono sveglio e me la godo».
Luca e Nicola, l’attore e il politico. Che cos’è la fratellanza?
«Un fratello o una sorella è qualcuno che ha cominciato il viaggio su questa terra a bordo del tuo stesso pullman e quindi ha visto gli stessi tuoi orizzonti, conosciuto le stesse persone e condiviso le stesse inquietudini, gioie e paure. Sono le persone che terranno in braccio i tuoi figli, daranno l’addio ai tuoi genitori, con cui terminerai il viaggio e che sanno tutto di te: difetti, pregi, segreti. È questo che crea un legame indissolubile di amore, a volte di odio».
Sta per compiere 60 anni. La sua carriera è stata una lunga e lenta salita. È un rimpianto?
«È vero, non c’è stata la svolta improvvisa. Ho conquistato spazi e considerazione piano piano, passo dopo passo. Anche la vicenda di Montalbano ha avuto bisogno di anni per diventare quella meravigliosa cavalcata trionfale che è stata. È la mia parabola umana e artistica, alla fine l’ho accettata».
Torniamo alla Storia. Perché continua a studiarla?
«Mio padre è il vero professore di casa. Ce l’ha raccontata facendola diventare semplice e chiara e facendoci appassionare. Quando la storia diventa qualcosa che ti riguarda non si può non amarla. Oggi la vivo come una cosa che mi appaga, mi diverte e mi arricchisce. Mi interessano soprattutto l’Ottocento e il Risorgimento, ma ormai da parecchi anni mi dedico alla storia della nostra Repubblica nel secondo dopoguerra».
Ha seguito il dibattito di questi ultimi anni sulla necessità di accentuarne l’importanza nelle scuole?
«Certo. La storia è una di quelle credo che la storia possa servire a metterci al riparo dalle tragedie. Purtroppo raramente gli esseri umani riescono a fare tesoro delle esperienze, spesso la storia peggiore si ripete. Quindi si continuerà a sbagliare e dovremo fare i conti con la nostra coscienza».
Pasolini diceva che l’Italia è un paese sporco proprio nella coscienza.
«Pasolini era un grande intellettuale. Aveva capito tutto con 50 anni di anticipo, che diventano secoli se si tiene conto dell’accelerazione avvenuta nelle nostre vite dagli anni ‘80 a oggi. L’Italia è un paese bloccato perché non è mai riuscito ad affrontare fino in fondo il proprio passato. Se la coscienza sporca è la causa o un effetto di tutto questo non saprei. Forse tutti e due».
Se guarda ai nostri figli, ai nostri giovani, riesce a avvertire una sensazione di ottimismo per il futuro?
«Direi di sì. Anche se dovranno affrontare da soli problemi giganteschi. Non riesco a ricordare un periodo storico con una frattura più violenta tra generazioni, tra il sapere dei padri e il sapere dei figli. Il sapere dei padri è stato demolito. Guai se i nostri figli si riveleranno arroganti e individualisti. Il futuro va pensato con compassione, dal latino cum patior: soffro con».
Lei si è definito un uomo di destra costretto a stare con la sinistra. Lo ribadisce?
«Era una provocazione. La destra italiana è legata al suo passato, al fascismo, che non è solo inaccettabile essendo stato una dittatura, ma oggi decisamente anacronistico come modello da proporre. La mia affermazione voleva sottolineare polemicamente che concetti come per esempio patria, disciplina, sicurezza sembrano essere infrequentabili perché riportano a quel periodo lì e non lo trovo corretto: si può amare la propria patria o desiderare un po’ di sicurezza senza aver nessuna nostalgia del fascismo».
Perché questo Paese continua a reclamare un uomo forte come emerge dai sondaggi?
«La tentazione c’è, e dal 1993 in poi sono nati e stati votati tanti ominicchi forti, ma che, tranne Berlusconi, sono durati poco per incapacità e piccolezze loro e per una insofferenza di fondo dell’italiano che ama trascinare nella polvere chi soltanto pochi mesi prima aveva portato sugli scudi».
Lei è stato il commissario Montalbano per quasi vent’anni. Che attore c’è dentro quel personaggio?
«Un attore introverso, con una educazione antica e una tecnica e una formazione solida che applica a una passione e a una sensibilità che gli derivano dal suo modo di approcciare la vita».
Mi dia una definizione di Andrea Camilleri.
«Un uomo intelligentissimo, con una modernità di pensiero straordinaria, forse dovuta al suo mestiere e alla sua frequentazione con i giovani, e una educazione ottocentesca fatta di storie, di letteratura, di poesia e filosofia».
Ha da poco terminato le riprese per Sky della serie “Il Re”, otto episodi nel quale è un direttore di un carcere che usa metodi perlomeno discutibili. Non farà mai più Montalbano, a nessun prezzo?
«Montalbano non è mai stato un problema di soldi. Diciamo che per me è stata una avventura professionale e umana meravigliosa. Adesso mi sembra conclusa. L’autore non scrive più e anche il mio amico regista, Alberto Sironi, se ne è tristemente andato. Ha senso terminare la saga filmando gli ultimi due romanzi inediti anche in segno di rispetto verso di loro? Oppure è proprio la loro mancanza a suggerire un rispettoso silenzio? Propendo per la seconda ipotesi»
Il ruolo cinematografico che le sarebbe piaciuto interpretare?
«Immagino si possa sognare, e allora dico Napoleone, con la regia di Kubrick: era un suo pallino. Oppure mi sarebbe piaciuto fare uno dei due personaggi dell’Uomo in più di Paolo Sorrentino, peraltro recitati magistralmente da Servillo e Andrea Renzi. Ma con Sorrentino, anche dopo aver visto il meraviglioso È stata la mano di Dio, farei qualunque cosa. Anche Cenerentola».
La sua paura più grande?
«Non la morte in sé, ma giungere alla fine della mia avventura, guardarmi indietro e dire: come me la sono giocata male. Noi non tesaurizziamo mai quello che viviamo, siamo sempre nel passato o nel futuro e così ci sembra di non aver vissuto. Pensare a quello che si vive, cercare di sceglierselo, ti dà la misura della tua vita. Un giorno ti sveglierai e non ci sarà più tempo per fare le cose che hai sempre sognato. Falle adesso. È una citazione di Giorgio Faletti».
Il personaggio storico a cui vorrebbe assomigliare?
«Giuseppe
Garibaldi. Per il suo agire libero, imprevedibile, passionale, eroico e in
qualche modo disinteressato».
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