Mercoledì 3 giugno si torna a circolare per
l’Italia. Chiunque, in qualsiasi regione abiti, potrà prendere l’auto, un
pullman, un treno, un aereo, una nave e recarsi dove gli aggrada.
Individualmente ne sono felice, non ne potevo più di stare sequestrato in casa
mia a Torino. Ma, come studioso e come osservatore della politica italiana, non
posso nascondere il mare di dubbi che mi assale.
Mi colpisce, innanzitutto, l’ideologia con
cui si è arrivati allo “sblocco” della circolazione inter-regionale. E’ giorni
che, come un ritornello, ci sentiamo ripetere: se e quando riapriremo, dovremo
farlo “insieme”. O tutte le regioni ripartono subito (3 giugno), oppure si
rimanda di una settimana o due, dando più tempo alle ritardatarie. L’importante
è non creare differenze, discriminazioni, privilegi.
Incredibile. L’ideologia aveva interferito
all’inizio dell’epidemia, quando voler mettere in quarantena i bambini in
arrivo dalla Cina, o evitare i ristoranti gestiti da cinesi, erano parsi al
perbenismo democratico intollerabili segni di razzismo e discriminazione. Ora
assistiamo, in modo più subdolo, al medesimo film: dire che una o più regioni
non sono pronte a spedire in giro i propri abitanti pare a molti
un’inaccettabile misura discriminatoria, foriera di conflitti e tensioni.
Ma non avevamo detto che, se la situazione
fosse risultata molto diversa da territorio a territorio, si sarebbe proceduto
ad aperture differenziate? Non ci è stato ripetuto fino alla noia che, una
volta finito il lockdown, avremmo dovuto monitorare attentamente la situazione,
ed essere pronti a introdurre restrizioni là dove la situazione lo avesse
richiesto?
Si può obiettare, naturalmente, che
l’ideologia del “tutte insieme” è supportata dai dati, che mostrerebbero che
l’epidemia è sotto controllo. Ma è proprio qui che le cose si fanno
problematiche. La realtà è che nessuno ha dati solidi su quel che sta succedendo
adesso, e nemmeno su quel che è successo nei 10 giorni successivi alle
riaperture del 18 maggio (i dati epidemiologici riflettono sempre quel che
succedeva 1, 2, persino 3 settimane prima).
L’indagine Istat sulla diffusione del
contagio è appena iniziata, con grave e a mio parere ingiustificato ritardo.
L’ultimo rapporto dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), su cui il governo
dice di poggiare le sue decisioni, se letto attentamente (e confrontato con il
report precedente) rivela che nella settimana dal 18 al 24 maggio il valore di
Rt, il parametro che indica il tasso di trasmissione del contagio, era in
aumento in 15 regioni/province su 20 (per la Campania non viene fornito alcun
dato). E quanto all’andamento dei contagi, il rapporto conferma le enormi
differenze non solo fra Nord e Sud, ma anche all’interno del Nord, con la
Lombardia che ha un’incidenza settimanale di nuovi casi 10 volte superiore a
quella del Veneto, e questo nonostante il Veneto faccia tanti tamponi e la
Lombardia pochi.
Con questo non voglio dire che la scelta di
far ripartire la circolazione interregionale sia del tutto ingiustificata.
Quando ci sono due valori in ballo, è normale che sia la politica a decidere. E
nessuno può dire qual è il “tasso di cambio” ragionevole fra un punto di Pil in
meno e 1000 morti in più.
Quel che non mi va giù, come sociologo, è
che non si riconosca che questa non è una scelta come un’altra. Quella fra
apertura e salute non è come la scelta fra meno tasse e più spesa pubblica.
Essa appartiene piuttosto alla categoria delle “scelte tragiche”, come in un
libro fondamentale (Tragic Choices, 1978) ebbe a definirle Guido Calabresi, uno
dei padri dell’analisi economica del diritto. La scelta è tragica perché, in un
caso come quello dell’epidemia da Covid, salute ed economia non sono
bilanciabili. E’ certo che la tutela rigorosa della salute ha effetti
catastrofici sull’economia, ed è altrettanto certo che la difesa delle esigenze
dell’economia costa migliaia di vite umane.
In questa situazione, l’unica cosa da non
fare, quale che sia la decisione che si prende, è di nasconderne il costo.
Perché se lo si nasconde, o non lo si riconosce solennemente, quel che si
pagherà è un sovracosto, il sovracosto di non dire tutta la verità.
La mia sensazione è che sia esattamente
questa la situazione in cui ci troviamo. Il governo ha preso le sue decisioni,
giuste o sbagliate che siano. Ma l’opinione pubblica e i media quelle decisioni
tendono a interpretarle come segnali di un miglioramento della situazione, di
una diminuzione del rischio (“se riaprono, vuol dire che c’è meno rischio di
prima”). I comportamenti non diventano più prudenti, ma meno. La voglia di
vacanze e di libertà fa il resto. Milioni di famiglie stanno progettando le
loro vacanze. Treni, aerei, navi, aliscafi stanno per subire un assalto.
Nessuno dice che stiamo lanciandoci nell’ennesimo azzardo. Nessuno dice che i
viaggi espongono a rischi considerevoli. Nessuna campagna martellante, come
quelle del passato su “distanziamento-mascherine-lavatevi le mani”, spiega ora
che cosa dobbiamo fare per ridurre i rischi quando saliamo su un mezzo di
trasporto collettivo. Nessuno ci informa con costanza e dovizia di particolari
su quali misure si stiano prendendo per neutralizzare i rischi dell’aria
condizionata sui treni, sugli aerei, sugli aliscafi. E si capisce pure il
motivo, che poi è il medesimo per cui furono a lungo osteggiati i tamponi:
salvare il turismo.
Ed ecco il sovracosto. La rinuncia a
renderci coscienti dei maggiori pericoli cui stiamo per andare incontro rende
il costo della salvaguardia dell’economia ancora più alto di quel che sarebbe
se le autorità parlassero chiaro, e osassero dirci la verità: l’epidemia non è
sotto controllo, i pericoli sono ancora molto grandi, se riapriamo non è perché
siamo in grado di farvi lavorare e divertire “in sicurezza”, ma perché abbiamo
deciso che la priorità è salvare l’economia e restituirvi un pò di normalità.
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