Giustizia
e ingiustizia. Trattativa Stato-mafia, i due volti della sentenza di
Palermo
di Danilo
Paolini
Ha retto, forse un po’ a sorpresa,
l’impianto accusatorio costruito dalla procura della Repubblica di Palermo per
dimostrare che nei primi anni 90 lo Stato trattò con "cosa nostra"
per disinnescare la strategia stragista di quest’ultima. Una trattativa
effettivamente ci fu, ci dice il verdetto emesso ieri pomeriggio dalla Corte di
assise del capoluogo siciliano, e riguardò gli allora vertici del Ros dei
Carabinieri, che avrebbero fatto pressioni sui governi dell’epoca. E Marcello
Dell’Utri, stretto collaboratore di Silvio Berlusconi, tra i fondatori di Forza
Italia e poi parlamentare della stessa forza politica, già condannato in via
definitiva cinque anni fa per concorso esterno in associazione mafiosa.
Dell’Utri, dunque, dopo la vittoria del suo partito alle elezioni politiche del
1994, sarebbe stato il "portavoce" delle minacce dei boss presso il
primo governo Berlusconi.
Ma le sentenze vanno rispettate fino in
fondo. Allora va affermato con chiarezza che quella di ieri non ci dice (e,
date le premesse, non poteva dircelo) che i contatti con i boss Riina,
Bagarella, Cinà e con l’ex-sindaco mafioso di Palermo Vito Ciancimino – le
"rivelazioni" talvolta false o non riscontrate del figlio di quest’ultimo,
Massimo, sono state alla base del processo concluso ieri – furono tenuti,
esperiti o avallati da esponenti di governi della Repubblica. E questo è un
elemento essenziale, anzi imprescindibile nell’ambito di un procedimento che si
è protratto per cinque anni tra mille polemiche (anche tra gli stessi
magistrati inquirenti), troppi veleni e autentici drammi umani.
Come quello di Loris D’Ambrosio, magistrato
di lungo corso, già collaboratore di Giovanni Falcone al ministero della
Giustizia, consigliere giuridico di Giorgio Napolitano alla Presidenza della
Repubblica, morto a 70 anni per un malore dopo che il suo nome era stato
associato all’inchiesta sulla "trattativa" per una telefonata con
l’ex-ministro dell’Interno Nicola Mancino (in quel momento ufficialmente
soltanto testimone), intercettata dagli inquirenti come diverse altre, sempre
intercorse con il Quirinale. «Casualmente», si giustificò la procura. Tuttavia
poi chiese di utilizzare (richiesta respinta, ma si dovette arrivare al
conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale) anche le
telefonate tra Mancino e l’allora capo dello Stato, nonché di interrogare lo
stesso Napolitano, cosa che effettivamente avvenne al Quirinale nell’ottobre
del 2014.
E un dramma è stato quello di Mancino,
l’unico uomo di governo risucchiato in questo processo, seppure solo per falsa
testimonianza: assolto con formula piena, l’ex-ministro Dc ed ex-presidente del
Senato, da cittadino e da giurista ha tenuto un atteggiamento sempre rispettoso
della giustizia e della magistratura, pur ritenendosi oggetto di una
oltraggiosa ingiustizia. Ieri, così, ha potuto finalmente dichiarare terminata
la sua «sofferenza», non mancando di definirsi «vittima di un teorema che
doveva mortificare lo Stato e un suo uomo che tale è stato ed è tuttora».
Una sua eventuale condanna per aver
dichiarato il falso avrebbe rinfocolato il sospetto dell’esistenza di un
livello politico-istituzionale della trattativa. Ma così non è stato. Già in
sede di istruttoria, in effetti, la procura era riuscita a formulare nei
confronti di un solo ex-ministro l’accusa (tanto discussa a livello giuridico)
di «violenza o minaccia a corpo politico dello Stato»: Calogero Mannino, che
però scelse la strada del rito abbreviato e nel 2015 fu assolto. Il processo di
appello è in corso.
Quel che rimane, dopo ieri, è senz’altro
uno scenario grave e inquietante. Ma le assoluzioni di Mancino e di Mannino
pesano e fanno riflettere quanto le condanne di tutti gli altri. E l’arresto di
Totò Riina all’inizio del 1993, dopo 24 anni di latitanza (per inciso, a opera
proprio del Ros dei Carabinieri e con Mancino alla guida del Viminale), lascia
intatti molti interrogativi sulla effettiva ampiezza e consistenza della
trattativa. A meno di pensare davvero, come ha sostenuto il sostituto
procuratore Teresi durante il processo che si è appena chiuso, che il
"capo dei capi" fu consegnato allo Stato dall’ala di "cosa
nostra" più vicina a Bernardo Provenzano perché giudicato un interlocutore
troppo intransigente. E questa è davvero un’altra storia.
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