da: la Repubblica del 22
aprile
Una mia recente Amaca sulle aggressioni
agli insegnanti ha sollevato, su alcuni giornali e sui social, una rovente
discussione. In estrema sintesi: ho
attribuito alla «struttura fortemente classista e conservatrice della nostra
società» il maggiore tasso di aggressività e di indisciplina che si
registra (stando alle cronache) nelle scuole tecnico-professionali e nelle
medie inferiori rispetto ai licei, frequentati quasi solo «dai figli di quelli
che hanno fatto il liceo». Poiché, scrivendo una nota di 1.500 caratteri, si è
costretti a evitare la zavorra dell’ovvio, non
ho aggiunto che esistono fior di liceali screanzati e arroganti, e borgatari
gentili e brillanti che ogni professore vorrebbe avere nella sua classe. Mi
interessava dire del macro-fenomeno, e in buona sostanza, non citandolo, di
ripetere l’antica lezione di don Milani sulla “scuola di classe” (vale
ricordare, in proposito, recenti polemiche su alcune auto-promozioni di
eleganti licei romani e milanesi, orgogliosi di avere nelle proprie aule
alunni, come dire, ben selezionati socialmente).
In altri tempi qualcuno mi avrebbe accusato
di fare del facile sociologismo di
sinistra, offrendo un alibi ai violenti, vedi la conclusione di
quell’Amaca: sono «i poveri che oggi come ieri continuano a riempire le carceri
e i riformatori». Ma i tempi devono essersi ribaltati, davvero ribaltati, se
invece in molti hanno scelto di rivolgermi esattamente l’imputazione opposta, accusandomi di “classismo” e di “puzza
sotto il naso”, nel solco del molto logoro, molto falsificante ma sempre
trionfante cliché “quelli dell’establishment contro quelli del popolo”. Ora:
fino a che sono i social a chiamarmi in causa, sono costretto a replicare che
non posso replicare. Non certo per alterigia, ma per una ragione oggettiva
sulla quale sarebbe importantissimo, e liberatorio, che tutti riflettessimo,
dal prestigioso intellettuale allo hater seriale: la moltitudine dei commenti (non tutti, ovviamente) NON riguarda quello che ho scritto,
riguarda la sua eco, i commenti ai commenti, voci relate, fonti in
brevissimo tempo vaghe e remote. Il testo (i 1.500 caratteri della mia Amaca,
insomma le mie parole) quasi non vale più. Quasi nessuno lo legge fino in fondo
e lo analizza. Vale il caotico, per certi versi mostruoso contesto del
“chattismo” compulsivo, così compulsivo che perde il filo del discorso già in
partenza. E dunque alle migliaia di persone che, sui social, mi hanno sommerso
di accuse e di invettive, sono costretto a dire, in buona amicizia: voi non
state parlando di me e non state parlando di quello che ho scritto, dunque
scusate ma non posso rispondervi. Non è che non voglio: non posso. Le parole
sono troppo importanti perché se ne possa fare un uso così approssimativo.
Molto più rilevante, invece, è che l’accusa di “classismo” mi arrivi da un giornalista, Luca Telese, che
conosce a fondo la storia della sinistra italiana. Se Telese considera
“classista” che qualcuno indichi la
differenza di classe e l’ignoranza
come cause, o perlomeno concause, della violenza e della devianza sociale,
allora significa che davvero il paradigma è totalmente ribaltato. È diventato
“contro il popolo” ciò che a quelli come me, lungo una intera vita, è sempre
sembrato il più potente argomento “a favore del popolo”: denunciarne la
subalternità economica e culturale, dire il prezzo che paga, il popolo, alla
sua mancanza di mezzi materiali (i quattrini) e immateriali (la conoscenza,
l’educazione). Non è più neanche un equivoco, è una vera e propria legge
mediatica quella che negli ultimi anni bolla come “snob” ogni definizione
possibile immaginabile del gap di classe. Se
dici che i poveri mangiano peggio dei benestanti, non è perché denunci (vedi la sacrosanta campagna di Michelle
Obama) il disastro sanitario provocato dal junk food, è perché sei un fighetto che mangia solo lardo di Colonnata e cardo
gobbo. Se dici che i poveri ricevono
informazioni di minore qualità e spesso nessuna informazione, e sono dunque
più esposti a manipolazioni politiche e veleni mediatici (junk media…) sei solo
uno spocchioso spregiatore di chi ha studiato meno di te. Se dici che nelle scuole meno qualificate si addensano più
facilmente i rischi di turbolenza sociale, spesso diretta conseguenza della
condizione familiare, ecco che sei
subito “classista”. Se oggi Friedrich
Engels pubblicasse Le condizioni della classe operaia in Inghilterra, i social lo aggredirebbero, chiedendosi
«come si permette, questo borghese con il culo al caldo, di parlare così male
del popolo dei suburbi». Se Karl Marx
scrivesse le sue severe considerazioni
sul Lumpenproletariat (proletariato straccione), o il socialista Orwell
riscrivesse il suo reportage sul “cattivo odore del proletariato”, idem.
La contraffazione oramai è perfetta: non dire mai che il popolo “sta sotto”, non
dire che è messo male, non dire che ha meno e che sa di meno, non dire che
ieri era carne da cannone e oggi carne da pubblicità, non dire che al popolo
cinquant’anni fa si dava in prima serata l’Odissea di Franco Rossi e oggi gli
si danno filmacci americani con sparatoria e squartamento, perché vuol dire che
lo consideri inferiore…
Peccato che l’intera storia della sinistra
parta dalla coscienza della sottomissione dei ceti popolari. La sua storia migliore
è storia di emancipazione non solamente economica, anche culturale. La sua
storia migliore è l’alfabetizzazione di massa, sono le centocinquanta ore di
studio per i lavoratori di fabbrica, è il mito del figlio laureato per i
genitori operai che non hanno potuto studiare, è Di Vittorio che convince i
cafoni di campagna ad andare in città, alla domenica, con il cappello in testa,
come fanno i signori.
Non è colpa della sinistra — almeno questo
addebito ci sia risparmiato — il fatto che nella nostra società, da un certo
punto in poi (in Italia: da Berlusconi in poi) gli esseri umani sono diventati consumatori da ingozzare, telespettatori da rintronare di spot,
gregge da tosare, massa amorfa che «ragiona come un bambino di otto anni»
(Berlusconi); e di pari passo la cultura è parsa soprattutto un lusso per
privilegiati, o addirittura una maschera del potere. Non più un’arma da
espugnare, costringendo i ceti dominanti a spalancare le porte delle scuole e
delle università; ma un orpello da disprezzare, valorizzando in antitesi la
voce grossa, i modi rozzi, il “parlare semplice”, come altrettante virtù
“popolari”. È il populismo: forse la cosa più antipopolare, dunque più di
destra, mai inventata sulla faccia della terra. Lo sdoganamento dell’ignoranza
è uno dei più atroci inganni perpetuati ai danni del popolo, e io penso (e lo
scrivo da decenni) che faccia perfettamente parte dello sdoganamento
dell’ignoranza l’idea che sia “classista” indicare con il dito proprio la luna:
ovvero la differenza di classe. È quello che ho cercato di fare in quella
famigerata Amaca; nel caso non mi fossi spiegato a sufficienza, spero di averlo
fatto meglio adesso.
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