Toh, chi si rivede: il Pd. Quando ormai
disperavamo di trovare traccia del secondo partito italiano, votato dal 18,7%
degli elettori, s’odono dal Nazareno i primi timidi vagiti e qualche prudente
pigolio. Martina, Calenda, Fassino, Serracchiani, Rosato, oltre agli antemarcia
Emiliano e Boccia e ai più recenti aperturisti Orlando e Franceschini.
Segnali di vita, o almeno di coma vigile.
Anche dal fronte renziano. E in quale direzione? Quella di un dialogo con i
5Stelle, la forza politica da sempre più vicina o meno lontana alle idee e ai
valori del centrosinistra. Che, se finora non se n’era accorto, è perché non
aveva idee e si era scordato i valori, a furia di copiare da B.. Noi,
modestamente, l’avevamo scritto più di un anno fa, subito dopo il trionfo del No
al referendum. L’unica via d’uscita per Renzi, in alternativa al ritiro dalla
politica prima promesso e poi smentito, era un bell’esame di coscienza e un
ritorno alle (sue) origini. Quelle del rottamatore anti-casta e
anti-establishment che si era presentato alle primarie del 2012 e 2013 come
l’ultimo salvagente del Sistema dalla marea montante dei 5Stelle: fronteggiando
Grillo senza demonizzarlo, anzi copiandogli le idee per fargli concorrenza. Se
Renzi torna Renzi e riavvolge il nastro fino al 2013 – dicevamo – rimangiandosi
o correggendo le politiche berlusconiane del suo governo e ripartendo dalla
lotta alle diseguaglianze, ai privilegi, alle mafie, alle lobby, alla
corruzione, all’evasione, ai conflitti d’interessi, alle grandi opere inutili,
non potrà che trovare un’intesa col M5S e risparmiarci un triste ritorno al
passato berlusconian-leghista.
Naturalmente Renzi preferì perseverare ed
ebbe ciò che meritava: il disastro del 4 marzo, col centrosinistra al minimo
storico in 72 anni di storia repubblicana. Ora che il suo tempo è scaduto,
tocca ad altri rimettere insieme i cocci di una catastrofe che si sarebbe
potuto almeno limitare invertendo per tempo la rotta. Dal voto a oggi, il Pd
era un pugile suonato che, incapace di reagire e di pensare, abbandonava il
campo portandosi via la palla e ripeteva mantra demenziali del tipo: “Gli
elettori ci hanno mandati all’opposizione”, “Di Maio e Salvini sono già
d’accordo per governare insieme”, “M5S e Lega sono due destre populiste
incompatibili con noi” e altre scemenze. Chi osava scrivere il contrario veniva
manganellato in Rete dai troll organizzati (l’unica organizzazione rimasta nel
Pd è quella dei webeti) con l’hashtag idiota “senzadime”: come se cercare
intese con altri in un sistema parlamentare e proporzionale fosse un favore
privato a qualcuno.
Invece è il dovere pubblico di chi ha
governato per 7 anni ed è stato votato dagli elettori superstiti per dare al
Paese il governo più vicino o meno lontano al proprio programma. Provare,
ovviamente, non vuol dire riuscirci. Significa anzitutto parlarsi, senza fare
gli schizzinosi. E mettere sul tavolo non i rancori che – come tutti i
sentimenti e i risentimenti – dalla politica dovrebbero restare fuori. Ma le
proposte minime possibili per un’intesa, nella consapevolezza che in democrazia
non si può pretendere che i vincitori abiurino e passino sotto le forche caudine
degli sconfitti. Dopo una disfatta elettorale, è sconsigliabile ripetere che
non si è sbagliato nulla ed è tutta colpa degli elettori che non hanno capito,
e riproporre lo stesso programma appena bocciato nelle urne. Molto meglio
individuare non tanto i colpevoli (lo sono tutti, nel Pd, pro quota), quanto
gli errori. E dire come si intende correggerli. Sette anni di governi di larghe
intese hanno dimezzato i voti di Pd e FI e spazzato via il cosiddetto Centro,
dunque l’ultimo obiettivo da inseguire sarebbe un nuovo governo di larghe
intese. Il che dovrebbe escludere l’ennesimo “dialogo” con B. Restano la Lega e
i 5Stelle: se per il Pd queste due forze pari sono, non resta che confermare
l’opposizione a prescindere. Se invece, come ripetono tutti i capi e capetti
dem, il peggio del peggio sarebbe un governo con la Lega, non resta che
lavorare al meglio o al meno peggio guardando all’altro “forno”: quello dei
5Stelle, che Di Maio lascia loro aperto, anzi spalancato, mentre annuncia che
sta per chiudere l’altro (con Salvini, avvinto come l’edera a B.).
Ieri l’autoreggente Martina, dopo 44 giorni
di freezer, ha indicato tre priorità: reddito d’inclusione allargato per
azzerare la povertà assoluta in tre anni (che poi è un principio di reddito di
cittadinanza); assegno universale per le famiglie con figli; salario minimo
legale e tagli al cuneo fiscale.
Tre punti programmatici molto simili – come
ripetiamo da tempo – a quelli dei 5Stelle. Se ora Martina riuscisse a
incontrare Di Maio senza svenire nel tragitto, potrebbe dettagliare meglio e
dire la sua sui 20 punti che il M5S ritiene a sua volta irrinunciabili. E
valutare insieme, con l’aiuto degli esperti arruolati da Di Maio per studiare
le compatibilità sui programmi, se esistano le basi per quel contratto alla
tedesca che è il migliore antidoto sia agli inciuci sottobanco, sia ai pasticci
tipo governi di minoranza, appoggi esterni, ministeri tecnici, soluzioni
balneari a tempo. Per non parlare dei governissimi-ammucchiata, destinati a
fallire sul nascere o a restare paralizzati dai veti incrociati. Mai i 5Stelle
entrerebbero in un governo con FI e mai la Lega sosterrebbe un governo col Pd.
Dunque il governo di tutti non solo non farebbe nulla, ma escluderebbe i due
vincitori delle elezioni e non avrebbe la maggioranza. Insomma, sarebbe un
governo di nessuno. Almeno questo, dopo 44 giorni buttati, è chiaro: i soli
governi possibili, se Salvini resta ostaggio di B., sono quello sull’asse
M5S-Pd e quello sull’asse centrodestra-Pd. Gli esploratori hanno poco da esplorare.
E il terzo uomo è un film di Totò.
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