domenica 25 aprile 2021

Michela Murgia: Stai zitta / 5

 


Brava e pure mamma!

Nella mia infanzia ricordo un solo volto di donna impresso sulle banconote, quelle da mille lire: era Maria Montessori. Ma se sul retro dei soldi con la faccia di Alessandro Volta c’era il tempio voltiano di Como e dietro il Michelangelo delle centomila lire c’era una delle sue nature morte, dall’altro lato di Montessori c’era invece un bambino, a significare che lei era lí per aver portato ai massimi livelli professionali l’unica eccellenza che un sistema patriarcale può riconoscere alle donne: l’educazione infantile. Le lire non esistono piú, ma la proiezione sociale delle donne come creature ontologicamente materne non ha smesso di dominare la narrazione pubblica.

«Covid, tampone salivare: ecco le quattro mamme ricercatrici che lo hanno ideato». Nel novembre del 2020 la scoperta di una procedura semplificata per testare la presenza del coronavirus nei bambini occupò per diversi giorni i titoli dei giornali italiani. La notizia non era la scoperta in sé, utile ma non rivoluzionaria, quanto il fatto che a farla fossero state quattro donne che tutti i giornali qualificarono come «mamme». Erano ricercatrici, ovviamente. Dottoresse, potremmo aggiungere senza temere di esagerare. Scienziate, a volerla dire tutta. Dai racconti dei media la loro professionalità dominante però non sembrava quella medica, quanto quella materna. L’impressione era che avessero fatto la scoperta non in quanto scienziate, ma in quanto madri. A capo del loro team di ricerca c’era un uomo, ma di lui nessuno ha ritenuto di dover specificare se fosse padre o meno. Il messaggio implicito

che passa da un simile registro lessicale è che la motivazione di uno scienziato sia la scienza, mentre quella di una scienziata sia l’istinto materno. Tutti i giorni nei laboratori di industrie, ospedali e università centinaia di ricercatrici fanno scoperte scientifiche che serviranno ai figli degli altri anche senza averne generati di propri, ma questo dato di realtà si scontra con uno dei peggiori pregiudizi sessisti: quello secondo il quale gli uomini sono esseri razionali e le donne sono esseri relazionali. L’assunto già ribadito da cui parte questa convinzione è che un maschio fa le cose per un perché, mentre una femmina solo se ha un per chi. Se non ce l’ha, bisogna temerla.

«Serena Williams e il potere dell’amore: mia figlia mi ha resa piú umana». All’apice di una carriera senza precedenti in qualsivoglia sesso, la sportiva piú potente del mondo venne intervistata da un giornale italiano nel 2018. La giornalista, che enfatizzò moltissimo le caratteristiche fisiche da supereroina della campionessa, le fece molte domande sulla carriera e sulla figlia neonata, per partorire la quale Williams aveva abbandonato temporaneamente il campo da tennis. A queste ultime questioni Williams rispose che l’amore del marito e della figlia l’avevano resa «una persona migliore», una frase che senz’altro molte di noi, almeno le piú fortunate, potrebbero facilmente condividere. Nel titolo del giornale a corona dell’intervista, quella banalità affettuosa diventò però qualcos’altro: la maternità della tennista – come le misero in bocca in un virgolettato che nel pezzo non compare mai – l’avrebbe resa «piú umana». Evidentemente, almeno per la giornalista, era indispensabile specificare che in quella donna potente c’era qualcosa di cosí disumano da dover essere mitigato dall’esperienza della maternità, che avrebbe aggiunto dolcezza alla forza dello schianto del suo servizio. «Oggi è piú bella. Meno leonessa della savana a caccia della preda, piú femmina», cosí si concludeva il pezzo, proponendo un’idea di maternità come antidoto alla ferocia che è un’illusione disneyana: nel mondo animale è proprio dopo il parto che le femmine diventano piú aggressive, piú di tutte proprio le leonesse evocate dalla chiosa. L’idea che l’esperienza del materno debba rendere piú umane le donne eccellenti ha come contraltare il fatto che le donne che scelgono di non essere madri sono invece raccontate o sottintese come creature disumane, mancanti della parte piú realizzata della loro essenza. La donna potente, se è madre, sembra far meno paura a chi il potere lo ha visto fino a quel momento solo in mano agli uomini, il cui essere padri o meno ovviamente non ha mai fatto alcuna differenza sul loro grado di ferocia.

L’ossessione della mammizzazione delle donne che arrivano all’apice è parossistica nei media italiani. Dallo sport alla politica, dal cinema all’economia, dalla scienza all’arte, ogni donna che si trovasse a raggiungere risultati tali da costituire notizia si sentirà chiedere se ha un marito e dei figli o se li ha dovuti «sacrificare» sull’altare della sua eccellenza. La domanda sulla conciliazione tra lavoro e famiglia è un must di ogni intervista alla donna di successo, mentre nessuno si sogna di rivolgerla a un uomo al culmine della carriera. Ma se anche glielo si chiedesse, un uomo potrebbe tranquillamente rispondere che vive per il suo lavoro, perché uno che mette il lavoro prima di tutto il resto è l’indefesso leader che ogni azienda vorrebbe sulla sedia da amministratore delegato, mentre una donna che facesse lo stesso sarebbe giudicata insensibile e spietata; brava sí, ma amputata della sua piú profonda vocazione per trasformarsi nella vecchioniana virago in carriera «stronza come un uomo, sola come un uomo».

In questo discorso c’è un’implicita nota di colpevolizzazione sociale agita contro le donne che, per qualche ragione, hanno scelto di lavorare e non avere figli. Il dato viene evidenziato come un’anomalia, perché, anche se i risultati personali vengono raccontati come azioni vincenti, l’assenza di prole resta qualcosa da dover motivare. Uno dei casi mediatici piú emblematici è quello dell’astronauta Samantha Cristoforetti. Quando andò in orbita per la prima volta non era madre e i giornali, che ritennero necessario sottolinearlo, per «umanizzarla» la definirono subito AstroSamantha, con il nickname che tutti gli astronauti italiani usano su Twitter, composto dal prefisso «astro» seguito dal loro nome proprio. Nel 2017, quando Cristoforetti diede alla luce una figlia, i giornali la ribattezzarono però prontamente Astromamma. Inutile dire che il collega Luca Parmitano, che pure ha due figlie, non è mai finito in un titolo di giornale col nome di Astropapà e nemmeno come Astroluca, che pure è il suo nickname su Twitter. Essersi riprodotti, per gli uomini, non ha niente a che fare con la dimensione pubblica della loro professione, mentre per le donne resta ancora la contropartita che può giustificarla.

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