mercoledì 5 febbraio 2020

Luca Ricolfi: La società signorile di massa / 8



Il risparmio dei padri
Qualche rozza cifra, per iniziare. Nel 1951, ossia pochi anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, il potere di acquisto medio delle famiglie italiane era, ai prezzi attuali,28 di circa 12.800 euro l’anno. È vero che i confronti a così grande distanza di tempo vanno presi con cautela, ma non si può non notare che quella cifra, grosso modo, corrisponde alla attuale soglia di povertà assoluta per la famiglia-tipo.29 È come dire che il tenore di vita dell’italiano medio nel 1951 era più o meno quello che oggi l’ISTAT considera il minimo vitale. Un risultato del genere non avrebbe stupito Marx, che non smise mai di sottolineare che il “lavoro socialmente necessario alla riproduzione della forza lavoro”, ossia il minimo vitale, è un concetto relativo, storicamente condizionato. Ma non dobbiamo stupirci neppure noi, comuni osservatori della realtà. Chi fosse sconcertato da questo risultato, perché sa perfettamente che i ricchi, i borghesi, i ceti medi c’erano anche allora, rifletta sul fatto che il reddito pro capite è una media di Trilussa: io ho due polli, tu nei hai zero, quindi in media abbiamo un pollo a testa. Nei primi anni cinquanta gli italiani con zero polli erano tantissimi, e la loro mera esistenza fa sì che quel reddito medio – che a noi oggi sembra al limite della sopravvivenza – fosse a sua volta la media fra il reddito ben più basso dei poverissimi e il più che decoroso reddito dei ceti medi e dei ricchi. Quanto tale reddito dei poverissimi fosse letteralmente “da fame” lo testimoniano innumerevoli fonti, dal cinema neorealista, pieno di storie di povertà estrema, alla stampa quotidiana, in cui ricorreva spesso il “dramma dei tuguri” in cui ancora abitavano milioni di persone.30 Del resto il censimento del 1951 sta lì a documentarlo: su 100 abitazioni, solo il 10.4% era dotato di un bagno, mentre oltre il 51.5% doveva accontentarsi di una “latrina esterna” o addirittura era privo di qualsiasi servizio.

Oggi, rispetto ai primi anni cinquanta, il potere di acquisto medio è quasi quadruplicato: la famiglia media ha un reddito annuo di 46.000 euro, e per di più è molto meno numerosa. Se, anziché il reddito familiare, considerassimo il reddito equivalente,31 dovremmo concludere che il potere di acquisto è oggi quasi cinque volte il livello del 1951. Se poi avessimo abbastanza dati per scorporare da queste cifre il reddito degli immigrati, il miglioramento del nostro tenore di vita risulterebbe ancora più evidente; un calcolo approssimativo suggerisce che, al netto degli immigrati, il reddito familiare medio dei cittadini italiani (compresi gli italiani poveri) sfiori i 50.000 euro l’anno. Una cifra che, in media, si ripartisce su poco più di due persone, diversamente da quel che accadeva negli anni cinquanta, in cui la famiglia-tipo era composta da quattro persone.
Ma quando e come abbiamo raggiunto questi livelli di benessere? Una ricognizione storica dell’evoluzione del potere di acquisto dal 1951 a oggi rivela che, in realtà, l’enorme progresso che oggi registriamo rispetto alla situazione del dopoguerra si è interamente realizzato nell’arco di vita della prima Repubblica: il livello di reddito attuale era stato già raggiunto all’inizio degli anni novanta, e dopo di allora si è limitato a oscillare intorno a quel livello (25.000 euro pro capite).
È stata dunque la generazione che ha visto la guerra, e in parte quella dei suoi figli, che nel giro di circa trentacinque anni (dal 1946 al 1992), con il lavoro e con il risparmio, ha consentito a un paese povero e ancora largamente agricolo di diventare una delle prime potenze industriali del pianeta.
L’aumento del reddito e quindi del potere di acquisto non è però l’unico ingrediente del nostro benessere. L’altro ingrediente fondamentale è stato, fino all’inizio degli anni novanta, l’elevatissimo tasso di risparmio delle famiglie, che ha permesso ai nostri padri di accumulare un patrimonio ingente, fatto di case, depositi, azioni, obbligazioni, titoli di stato. Nel 1951 la ricchezza media della famiglia italiana, valutata ai prezzi attuali, era di circa 100.000 euro. Quarant’anni dopo, ossia all’inizio degli anni novanta, era salita a circa 350.000 euro, da allora – pur fra molte oscillazioni – fluttua poco sotto i 400.000 euro.
Si potrebbe pensare che, all’origine dell’aumento della nostra ricchezza, vi sia essenzialmente lo spirito di sacrificio e la laboriosità delle due generazioni che si sono succedute dopo la fine della guerra. È così, ma non è tutto. Un contributo fondamentale all’aumento della ricchezza è venuto anche da altre due fonti: il debito pubblico e le bolle speculative sui mercati finanziari e immobiliari.
Nel quarto di secolo che va dalla crisi del 1964 (la cosiddetta “congiuntura”) alla firma dei trattati di Maastricht (1992), la nostra ricchezza è cresciuta anche grazie a un’imponente espansione del debito pubblico, che ha permesso agli italiani, specie negli anni settanta (gli anni della stagflazione), di accrescere sia il proprio reddito disponibile (alimentato dai trasferimenti statali), sia il proprio patrimonio grazie ai ricchi dividendi dei titoli di stato emessi per finanziare l’aumento della spesa pubblica.32 È soprattutto nel trentennio che va dalla fine del miracolo economico (1964) all’esordio della seconda Repubblica (1994) che l’Italia si trasforma in “una repubblica fondata sulle rendite”,33 in cui la quota di reddito che va ai salari e ai profitti, ossia al cuore del sistema produttivo, si riduce irrimediabilmente a favore dei redditi che non sgorgano riduce irrimediabilmente a favore dei redditi che non sgorgano direttamente da esso, perché sono il risultato dell’interposizione pubblica e delle innumerevoli sacche di privilegio che essa genera.
Nel quarto di secolo successivo, ossia dalla prima metà degli anni novanta a oggi, la ricchezza ha continuato a crescere (mentre il reddito ristagnava), ma questa volta non più grazie ai risparmi delle famiglie (come fino al 1992), o grazie all’emissione di debito pubblico, bensì in base al mero apprezzamento del valore degli asset, specie delle case. Un processo che si prolunga fino allo scoppio delle bolle immobiliari e finanziarie fra il 2007 e il 2011, quando la ricchezza cresciuta su sé stessa comincia all’improvviso a sgonfiarsi.
Alla fine della lunga crisi degli anni duemila, il potere di acquisto del reddito è praticamente identico a quello di trent’anni fa, ma il valore reale della ricchezza si colloca, a dispetto della crisi, sensibilmente sopra il livello dei primi anni novanta (+20%). Non solo ma, in rapporto al reddito disponibile, ancora oggi in Europa c’è solo un fazzoletto di terra più patrimonializzato dell’Italia, quello che riunisce Olanda, Belgio e Danimarca: tutti gli altri paesi, compresa la Germania, il Regno Unito, la Francia sono meno patrimonializzati di noi. Dunque, i dati ci dicono che anche negli ultimi, assai meno dinamici, trent’anni, a dispetto della lunga crisi iniziata nel 2007-2008, il potere di acquisto complessivo degli italiani è aumentato in modo apprezzabile. Solo che, ora, il miglioramento del tenore di vita è affidato esclusivamente alla dinamica della ricchezza, case e risorse finanziarie, e non più alla dinamica dei redditi.
È una situazione per molti versi opposta, per non dire capovolta, rispetto a quella degli anni cinquanta e dei primi anni sessanta. Nel periodo che va dal 1951 al 1963 (ultimo anno del miracolo economico), i redditi crescevano molto velocemente perché la gente cercava di migliorare la propria condizione puntando sul lavoro, mentre la ricchezza patrimoniale risultava addirittura calante, causa la stasi dei prezzi delle abitazioni35 e lo scarso sviluppo dei mercati finanziari.
Dopo il 1963 i due trend, del reddito e della ricchezza, si invertono: ora e per sempre, ossia fino ai nostri giorni, sarà la ricchezza a crescere molto più velocemente del reddito, non solo perché aumenta la domanda di abitazioni e di strumenti finanziari, ma perché, poco per volta, si riduce l’offerta di lavoro. Contrariamente a quanto si sarebbe potuto ipotizzare, la ristrutturazione dell’industria italiana dopo il 1964, con il licenziamento delle fasce più deboli della forza lavoro (giovani, donne, anziani), non provoca un aumento corrispondente della disoccupazione, ma induce milioni di lavoratori a ritirarsi dal mercato del lavoro. E il punto di svolta, sorprendentemente, è esattamente lo stesso, il 1964, primo anno del dopoguerra in cui l’Italia sperimenta una riduzione del PIL: un evento nuovo, che in quell’epoca non veniva indicato con il termine negativo recessione, ma con il termine più neutro “congiuntura”, quasi a sottolineare la natura passeggera di quel momento di difficoltà dell’economia. A partire da allora, quasi di colpo, la ricchezza inizia a crescere più del reddito, e il numero di soggetti completamente inoccupati comincia a crescere molto più rapidamente del numero di occupati a tempo pieno. Il grado di patrimonializzazione delle famiglie, ossia il rapporto fra patrimonio e reddito, è ancora basso (circa 4), molto più basso di oggi (quasi 9), ma il solo fatto che la riserva di valore su cui ogni famiglia può contare sia in aumento, e cresca più del reddito, basta ad allentare la spinta al lavoro, che fino alla fine del miracolo economico era stata fortissima. Ora, per la prima volta dall’Unità d’Italia, gli italiani che non lavorano sono più numerosi di quelli che lavorano, e lo scopo dominante di quelli che lavorano, spesso facendo gli straordinari o un secondo lavoro, sta diventando sempre più l’acquisto della casa e di tutto ciò che le è connesso.
È qui, nel cuore degli anni sessanta, che la società signorile di massa inizia a prendere forma. Perché è da allora che il non-lavoro è divenuto prevalente rispetto al lavoro, ed è da allora che, grazie allo spirito di sacrificio dei padri, è decollato quel processo di iperpatrimonializzazione che della società signorile di massa è un pilastro essenziale.

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