Riporto questo articolo di Cancellato che – come il 99% della stampa - usa
un termine errato: disquisendo di quota 100 afferma che ci saranno “penalizzazioni”. Falso. Non ci sono
penalizzazioni.
Da
che mondo e mondo, da sempre: più tardi lasci il lavoro, maggiore sono i
contributi versati, maggiore sarà la pensione. La penalizzazione si ha quando, andando in pensione prima di quanto prevede la norma generale, si applicasse una riduzione percentuale o in valore assoluto.
Qui non si tratta di penalizzare nessuno. Chi sceglie di andarsene in pensione
con 38 anni di contributi percepirà un
assegno mensile inferiore a chi ha versato
39 o 40 o 41, ecc.. di contributi. Ovvio, logico.
Questo gli italiani lo sanno da sempre. Non è cambiato nulla. Solo che, l'"informazione" usa il termine penalizzazione in modo improprio, agitando gli aspiranti pensionati.
Del resto: nella vita ci sono – per necessità o volontà – altre cose che non
siano il lavoro fino al momento del catetere,
della dentiera, ecc..ecc..
Mi stupisce che un giornalista acuto come Cancellato commetta una simile imprecisione
(voglio sperare non si tratti di disonestà mentale) tipica della stampa che
pregiudizialmente è contro il governo
Salvini e “cuginetto” Di Maio.
Sotto
il vestito, niente: reddito di cittadinanza e Quota 100, storia di due truffe
(quasi) perfette
Sono
i cavalli di battaglia di Lega e Cinque Stelle e tra oggi e domani saranno
approvate in Consiglio dei Ministri. Peccato che a parte il nome sono
provvedimenti completamente diversi rispetto a quelli promessi in campagna
elettorale. Se ne accorgeranno, gli italiani?
Toh,
chi si rivede, la manovra del cambiamento. Sono passati quasi quattro mesi dal giorno in cui Di Maio e i ministri Cinque Stelle si
affacciarono dal balcone di Palazzo Chigi per festeggiare il 2,4% di
deficit, i 9 miliardi per il reddito di cittadinanza, i 7 miliardi per Quota
100, una crescita stimata all’1,5% e il consenso siderale di un Paese che
sembrava aver di fronte gente che manteneva le promesse, pure quelle che
sembravano quasi irrealizzabili.
A distanza di quattro mesi quelle immagini
sembrano lontane anni luce. Il deficit, dopo un tira e molla infinito, è sceso
dal 2,4% al 2%, di fronte alla minaccia di procedure d’infrazione europee. Le
prospettive di crescita si sono infrante sul muro dei dati, che parlano di un
Paese fermo, sull’orlo della recessione. Lo spread, come aveva ahilui promesso
il ministro-martire Giovanni Tria si è mangiato buona parte dell’extra deficit
del governo. Del reddito e di Quota 100 invece si sono perse le tracce, erose
giorno dopo giorno dai passi indietro del governo, dai dubbi della ragioneria
di Stato, dalla necessità di ritardarne la partenza, per risparmiare qualche
euro sul bilancio 2019.
E invece no, rieccole: oggi, al più tardi
domani dovrebbe essere il gran giorno dell’approvazione in Consiglio dei
Ministri delle due misure bandiera di Lega e Cinque Stelle, l’abbattimento
della Legge Fornero e il sussidio universale al reddito che avrebbe abolito la
povertà. Ecco: se quattro mesi fa eravate rimasti a queste definizioni, forse
vi conviene sedervi. Perché quel che oggi sarà approvato dal Conte e colleghi
di quegli annunci mantiene giusto il nome, per una questione di marketing. Il
contenuto, invece, è piuttosto diverso.
Partiamo da Quota 100, che alla Legge
Fornero fa il solletico, e nemmeno troppo. Primo: è una finestra di tre anni, e nulla più: dal
2019 e fino al 2021. Dal 2022, a
quanto si dice, l’obiettivo sarà Quota 41
(anni di contributi). Ma sono solo voci. Secondo: costa 4,7 miliardi - compreso il rinnovo dell’Ape sociale opzione
donna - anziché i 7 previsti nelle
prime bozze di manovra, che dovevano essere 13 il primo anno (e 20 a regime) se
si fossero seguiti alla lettera i programmi elettorali. Terzo: Quota 100 vuol dire 62 anni di età e 38 di
contributi e non è, come si
pensava nei giorni del voto, una somma
componibile a piacimento. Quarto: se si va in pensione con Quota 100 ci
sono penalizzazioni, anche piuttosto pesanti. È logica, del resto: se vai in
pensione prima, paghi meno contributi e ricevi meno stipendi. Strano che in
campagna elettorale non l’abbia ricordato nessuno.
Anche sul reddito di cittadinanza, la china
è quella: doveva essere la bomba atomica dei conti pubblici italiani, il
sussidio per gli sdraiati sul divano, il grande furto dei lavoratori del Nord
in favore dei disoccupati del Sud. Si è rivelato il classico brodino
all’italiana, con le clausole scritte in piccolo, in fondo al contratto, come
quanto si compra una vacanza a rate. Anche in questo caso, partiamo dalle
cifre: dovevano essere 11 miliardi di euro, sono scesi a 9 e sono arrivati a
poco meno di 5, nei quali rientra anche il miliardo da spendere per
rivitalizzare i centri per l’impiego che avrebbero dovuto costituire
l’architrave delle politiche attive per il lavoro. Meno soldi può voler dire
tante cose: una platea più ristretta, inizialmente era stimata in 6,5 milioni
di persone, un assegno più misero rispetto ai 780 euro promessi, criteri più
stringenti per accedere al programma. Nel caso del reddito di cittadinanza di
Di Maio - che nemmeno è un reddito di cittadinanza, ma un reddito minimo
garantito: battaglia persa, ci arrendiamo - vuol dire tutte e tre le cose. Ed è
questo, soprattutto, il motivo dei continui rinvii.
La cosa buffa, da domani, sarà vedere le
reazioni degli italiani. Di fronte hanno due provvedimenti che degli originali
mantengono solo il nome. E che, nei fatti, non cambieranno la vita né dei
disoccupati, né dei pensionati, non più di quanto farà (in negativo) il
rallentamento dell’economia. Andrà tutto bene così, ai nostri? Basterà loro
sapere che nella forma i patti sono stati rispettati? Si accontenteranno di
sapere che gli sbarchi si sono fermati e che Morales e Bolsonaro ci hanno
regalato un Cesare Battisti nuovo di zecca su cui sfogare i nostri cinque
minuti d’odio quotidiani? Oppure apriranno gli occhi? Si accettano scommesse.
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