da: http://www.glistatigenerali.com/ - di Stefano
Graziosi
Il fuoco incrociato su Donald Trump si fa
ogni giorno più intenso. E non si può certo dire che lui non ci metta del suo.
Lo scandalo Russiagate sembra stringersi progressivamente intorno al
presidente, mentre le sue strategie di difesa lasciano alquanto a desiderare.
Nel pieno dell’indagine, ha silurato improvvisamente il direttore dell’FBI,
James Comey, offrendo il fianco a quanti lo accusano di avere qualcosa da
nascondere. Subito dopo, è stata la volta dell’informazione di intelligence
condivisa con il Cremlino: a seguito della rivelazione del Washington Post, il
presidente prima ha smentito tutto, salvo poi fare una giravolta, ammettendo
che quell’informazione sensibile, effettivamente, la aveva passata ai russi.
Una figura barbina, che ha costretto alla retromarcia anche quanti,
nell’amministrazione, si erano spesi nella smentita (McMaster in primis). Il
tutto mentre l’ipotesi dell’impeachment torna a circolare insistentemente e
qualcuno mormora già come altamente probabile che l’attuale vicepresidente,
Mike Pence, possa presto ascendere al più alto scranno della Casa Bianca. Ed
ecco allora che, in questo marasma, vale forse la pena di analizzare con più
calma la situazione, evidenziando in particolare due ordini di problemi: uno
tecnico e l’altro squisitamente politico.
In primo luogo, è veramente possibile che
Trump sia sottoposto a un impeachment? Teoricamente sì. Ma è molto difficile
che ciò accada: almeno nel breve termine. Innanzitutto dobbiamo considerare che
il procedimento di messa in stato d’accusa risulti particolarmente complesso e
non esattamente breve. La Camera deve infatti prima istruire il processo,
passando poi a una votazione in cui è richiesta una maggioranza semplice per
l’approvazione. Qualora l’istanza passi, la parola passa al Senato cui spetta
il giudizio vero e proprio sul presidente, che viene condannato se e solo se i
due terzi dei senatori votano a favore dell’impeachment. Al momento, solo due
volte nella Storia americana si è avuto un processo di messa in stato d’accusa
completo: nel 1868 (ai tempi di Andrew Johnson) e nel 1998 (ai tempi di Bill
Clinton). In entrambi i casi, il presidente fu salvato dal Senato. Di fronte a
questa complessità, è difficile che nell’attuale situazione istituzionale il
Congresso possa decidere di avviare un procedimento di impeachment. Senza poi
trascurare che, al momento, entrambe le camere risultino a maggioranza
repubblicana. E’ pur vero che molti deputati del Grand Old Party non sopportino
Trump (soprattutto al Senato) e che vorrebbero toglierselo dai piedi. Ma è
altrettanto vero che al Partito Repubblicano non convenga mettere sotto impeachment
un proprio presidente. Ragion per cui, almeno fino alle elezioni di medio
termine del 2018, una simile ipotesi appare abbastanza lontana (per quanto non
del tutto escludibile).
Tuttavia, al di là della questione dell’impeachment,
l’attuale caos chiama direttamente in causa la caratura politica dello stesso
Trump. Messo alle strette, il presidente grida al complotto, evocando (un po’
impropriamente) lo spettro della caccia alle streghe: quel maccartismo che,
all’inizio degli anni ’50, mirò a stanare (non senza paranoie) spie comuniste
all’interno della società americana. Il senatore Joseph McCarthy mise sotto la
lente d’ingrandimento soprattutto intellettuali e attori. E fu quando decise di
volgersi all’esercito che nel 1954 – durante l’amministrazione di Eisenhower –
fu di fatto bloccato, screditato e messo fuori gioco. Oggi, Trump rievoca le
tinte fosche del Crogiuolo milleriano ma il problema resta uno solo. E non
riguarda soltanto la sua condotta sotto il profilo morale e penale. Ma la sua
effettiva capacità di azione politica.
In altre parole, il problema qui non è
tanto se le accuse legate a Russiagate siano vere o false: una questione che –
diciamocelo – in buona parte interesserà gli storici. Il punto qui è
squisitamente di carattere politico. Con la campagna elettorale che ha condotto
e il personaggio che incarna, non era pensabile, per Trump, non lastricarsi la
strada di nemici (dalla stampa, all’intelligence, passando per molti deputati
del Congresso). Se dunque Russiagate, come lo stesso Trump suggerisce, è un
attacco politico, esigerebbe (secondo logica) una risposta autenticamente
politica e non una serie di reazioni bislacche, raffazzonate e
dilettantistiche. Quando Napoleone fece rapire e uccidere il duca d’Enghien,
causando scandalo in tutta Europa, pare che il principe Talleyrand abbia affermato:
“L’uccisione del duca d’Enghien non è stato un delitto. E’ stato un errore”.
Una frase applicabilissima al caso Trump. Un presidente che, anziché prendere
decisioni politiche energiche per uscire dall’angolo, cade in contraddizione e
preferisce le grida isteriche. Senza poi trascurare realisticamente che,
ammesso e non concesso che stia giocando sporco, non sia neppure in grado di
giocare sporco. Ad oggi, il grande effetto politico di Russiagate è proprio
questo: una forma di pressione per impedire a Trump di portare avanti alcuni
punti salienti del suo programma originario (a partire dall’apertura verso
Mosca). Una forma di pressione che, sotto molti aspetti, sembra stia
rivelandosi abbastanza efficace, visto che il disgelo con la Russia appare sempre
più lontano. Il tutto mentre Trump, una volta di più, dimostra una totale
incomprensione delle dinamiche politiche, non capendo di essere stato lui
stesso a scavarsi la fossa in cui sta sprofondando.
Dopo la vittoria dello scorso novembre,
Trump ha difatti commesso due errori madornali: si è circondato di figure dalle
dubbie capacità politiche e ha rinunciato a incarnare la figura del presidente
inclusivo. Il presidente disposto magari anche ad aprire all’opposizione. Non
dimentichiamo infatti che Ronald Reagan, quando vinse nel 1980, era visto da
moltissimi come un pazzo guerrafondaio e un uomo politicamente divisivo. E fu
proprio per uscire da quest’impasse che scelse un entourage competente e –
soprattutto – cercò con successo la collaborazione dei democratici al Congresso
per portare efficacemente avanti la sua agenda politica (soprattutto in materia
di esteri). Di tutto questo oggi Trump avrebbe bisogno, per reagire agli
attacchi di Russiagate. Ma lui no, preferisce sbraitare, preferisce il contatto
diretto con le masse, preferisce firmare un numero abnorme di decreti inutili
(perché tanto il Congresso non glieli ratifica). Il presidente eletto come uomo
del fare è insomma caduto in uno stato di totale inefficienza.
L’unico modo che Trump ha per salvarsi da Russiagate
è lasciarsi alle spalle la balcanizzazione politica in cui l’America è
sprofondata. Aprire agli avversari e lavorare con le migliori energie politiche
che il Congresso mette oggi a disposizione, in nome di un trasversalismo
partitico che lui ha già sperimentato ed esemplificato a livello elettorale
(avendo pescato sia da bacini repubblicani che democratici). Questa è l’ultima
occasione che il presidente ha per uscire dalla melma in cui è piombato. Ma che
abbia l’intelligenza, la profondità e l’audacia per capirlo, questo è un altro
discorso.
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