martedì 11 maggio 2021

L’Europa sociale e i sussidi agli italiani

 


da: https://phastidio.net/ 

Mario Draghi chiede di rendere permanenti i fondi europei SURE per la disoccupazione. Attenzione a non farsi prendere per i soliti italiani a caccia di sussidi

Il presidente del consiglio italiano, Mario Draghi, durante i lavori del Porto Social Summit, l’adunanza della Ue che dovrebbe gettare le basi del pilastro sociale comunitario, ha parlato dei problemi di lavoro e welfare in Europa e di come avviare una azione comune per risolverli. Nella sostanza, di come mettere in comune la politica sociale, risorse incluse. Tema di grande delicatezza, perché sottintende anche flussi di fondi tra paesi, cioè mutualità, e non solo principi da declinare sul piano legislativo nazionale.

In Europa, ha detto Draghi, un giovane su sette è un NEET, cioè non lavora, non studia né è impegnato in attività formative. In Italia, siamo a uno su quattro. In Europa, la differenza nei tassi di occupazione tra uomini e donne è all’11,3%. In Italia è il doppio. Ulteriore considerazione: in Italia, un terzo della popolazione vive nelle regioni meridionali ma rappresenta un quarto dell’occupazione complessiva.

Segue, nel discorso di Draghi, l’impegno italiano, dentro e fuori il PNRR, per contrastare queste diseguaglianze sociali: politiche attive del lavoro, inclusa formazione permanente;

asili nido, infrastrutture di trasporto soprattutto al Sud, incentivi all’assunzione di donne e giovani. Molte cose già lette e sentite negli ultimi lustri ma oggi con il vincolo e la pressione da ultima spiaggia del Recovery Plan.

La novità nel discorso del premier è la richiesta alla Ue di fare un passo oltre, e racchiudere il pilastro sociale nel Semestre Europeo, il ciclo di coordinamento economico, fiscale, di bilancio e sociale della Ue, dove si fissano gli obiettivi e se ne monitorano i progressi.

Alla fine del suo intervento, Draghi ha parlato rapidamente delle politiche macroeconomiche. Richiamando due punti: non ritirare troppo presto il sostegno fiscale e mantenere il programma SURE, cioè i prestiti Ue per il finanziamento della cassa integrazione e il contrasto dei “rischi di disoccupazione” nei paesi membri.

SURE è nato in emergenza pandemica ma da tempo, soprattutto dall’Italia, venivano richieste di finanziare i sussidi di disoccupazione su base comunitaria. Ricordiamo ad esempio la proposta di Luigi Zingales durante la Grande Recessione.

Il premier olandese Mark Rutte si è subito detto contrario a rendere permanente il SURE, e lo si può capire. La proposta italiana, se di questo si tratta, necessita di essere spiegata e articolata, trattandosi di una forma di mutualizzazione permanente.

Ad esempio, quali sarebbero le condizionalità per chi richiede il SURE, post pandemia? Intuitivamente, aderire alla “convergenza” fissata nel semestre europeo per le politiche di lavoro e welfare. Cioè cedere sovranità. Torneremmo agli spasmi del MES pandemico, quindi. Le politiche del lavoro sono quanto di più caratterizzante la politica economica e i modelli di sviluppo di un paese. Al momento, appare difficile pensare che sia possibile metterle in condivisione.

In Italia ascolteremmo i soliti pianti sui “diktat di Bruxelles”, che “non capisce le nostre peculiarità”. Senza contare altre criticità. Alti tassi di disoccupazione, e la loro persistenza nel tempo, sono la spia di politiche economiche disfunzionali, tra le quali figurano l’elevato costo del lavoro rispetto alla creazione di valore aggiunto, e la presenza di meccanismi di welfare che incentivano inattività e sommerso, incluse le politiche previdenziali.

Non basta suggerire in modo estemporaneo che si vorrebbe un sussidio di disoccupazione europeo per risolvere criticità sociali che sono frutto di scelte prevalentemente domestiche. A dirla tutta, l’originario suggerimento del sussidio di disoccupazione europeo venne avanzato per rispondere a situazioni di shock asimmetrico, cioè che colpiscono alcune nazioni più di altre.

Condizione di non facile accertabilità, se volete il mio cinico parere. A meno che l’Italia si sia abbonata al ruolo di vittima di shock asimmetrici, che poi sarebbe la versione tecnocratica del concetto di destino cinico e baro, che di solito si accanisce contro il Belpaese.

Quindi, immaginate la scena: la Ue prescrive all’Italia, per accedere ai fondi SURE eventualmente riformati e resi permanenti, alcune cose. Tipo aumentare l’età pensionabile, decentrare la contrattazione collettiva, riformare il sistema di istruzione e i suoi programmi, raccordandoli col mondo del lavoro.

In altre parole, di combattere gli incentivi all’inattività. Pensate gli strepiti domestici per la sovranità stuprata da questi “burocrati di Bruxelles” che non intendono mandarci trasferimenti a titolo gratuito, nel rispetto della nostra bimillenaria tradizione di culla della civiltà mediterranea.

Che poi, come detto, il SURE è un prestito, non un sussidio. Molto dipenderebbe dal differenziale col costo del debito italiano sul mercato. Nuove prestigiose carriere politiche prenderebbero corpo e forma, al grido “la Bce cancelli il debito, oppure compri i nostri Btp senza fiatare, presto!”

Insomma, vaste programme comme d’habitude, caro presidente Draghi. Poiché rifiuto di pensare che obiettivo dell’attuale premier italiano sia quello di sfruttare la propria credibilità e prestigio internazionale per far piovere soldi a buon mercato sul suo paese natio, l’unica interpretazione alternativa che mi rimane è che egli punti a introdurre il solito vincolo esterno, dietro l’obiettivo nobile di omogeneizzare le politiche sociali.

Politiche che tuttavia, come detto, sono ineludibile prodotto delle dinamiche di quelle del lavoro. A Mario Draghi quindi il compito non di ammansire Rutte and friends come fossero i nuovi Jens Weidmann, ma di mostrare che l’Italia non cerca scorciatoie, e che solo riformandosi dall’interno potrà essere credibile in richieste di unificazione di questo tipo. Una riforma dall’interno che, nel paese dove esiste una classe politica convinta che dovrebbe esistere un salario minimo europeo identico tra i vari paesi “per non fare dumping salariale”, appare impresa epica.

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