domenica 23 maggio 2021

Giorgia Meloni, la rimozione del buco nero

 


da: Il Fatto Quotidiano – di Gad Lerner

Abbandona il “vermi magrebini” e il “sei nomade? Devi nomadare”, ma non i tratti popolari. Si spaccia estranea al ceto politico che frequenta da 30 anni. Mentre il nazifascismo è stato “una parentesi”.

Giorgia Meloni ha ripulito il suo linguaggio, e non possiamo che rallegrarcene leggendo le trecento pagine della sua autobiografia balzata in cima alle classifiche di vendita. Nella speranza che si tratti di un cambiamento definitivo. Dentro Io sono Giorgia (Rizzoli) non troverete più neanche un “Soros usuraio”, “Sei nomade? Devi nomadare”, “O parmigiano, portami via”, “Vermi magrebini”, “Bastardo spacciatore nigeriano”. Un repertorio minaccioso, di conio peraltro recentissimo, ma che non si addice di certo a una candidata presidente del Consiglio. Archiviato, si cambia registro.

Non farò a Giorgia Meloni il dispetto di manifestare apprezzamento per la sua opera letteraria – resto pur sempre fra i suoi bersagli preferiti – ma riconosco la novità e anche l’efficacia divulgativa dell’immagine con cui ora si presenta. Se fosse un uomo, diremmo che ha deciso d’indossare il doppiopetto sopra la camicia nera. Ma la leader  di Fratelli d’Italia è una donna, abile nel prendersi in giro per l’aspetto minuto, e pure questo conta nel favorirla quale figura vincente nella destra che aspira a governare l’Italia. Meno umorale di Salvini, e dunque più credibile, senza rinunciare al tratto popolaresco con cui si spaccia estranea a un ceto politico romano che frequenta da quasi trent’anni (su 44 d’età).

Cominciamo dal prendere sul serio il disegno politico con cui contende alla Lega la

supremazia del suo schieramento. Ecco lo schema di gioco: “Semplificando, da una parte il Pd, partito ‘collaborazionista’ delle ingerenze straniere, dall’altra Fratelli d’Italia, il movimento dei patrioti. Sarà il bipolarismo dei prossimi anni in Italia”. Chiaro, no? Lo schieramento avverso descritto in guisa di quinta colonna dei nemici della nazione, come nei più classici schemi del populismo di destra. Non a caso fra le espressioni più usate nel libro figura la generica evocazione di “consorterie europee”.

Ero in prima fila sotto il palco di piazza San Giovanni, il 19 ottobre 2019, quando Giorgia Meloni sfoderò il comizio formidabile con cui s’impose al popolo di destra, surclassando Salvini e Berlusconi. L’ormai celebre autoritratto che ora dà il titolo al libro, “Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono cristiana”, divenuto perfino un remix musicale, ha la pretesa di trasformarsi in manifesto politico-culturale. Quando segnalai a Repubblica, per cui allora scrivevo, il clamoroso successo conseguito dalla Meloni, il giornale affidò a Francesco Merlo il compito di analizzarlo. Lui la snobbò ironizzando sulla sua natura “coatta”. Beccandosi in replica del “trinariciuto radical chic”. L’aveva evidentemente sottovalutata, come stanno incaricandosi di dimostrare anche i sondaggi.

Incontriamola dunque nella sua veste di precocissima leader politica (a 29 anni era già ministro di Berlusconi) – dopo l’infanzia resa complicata dall’assenza di un pessimo padre – quando varca la soglia di via della Scrofa per assumere “la responsabilità di una storia lunga 70 anni, ereditata da Almirante, Rauti e Fini”. Ci aspetteremmo non trascurasse il trentennio precedente, che aveva avuto inizio nel 1919 in piazza San Sepolcro a Milano con la fondazione dei Fasci di combattimento. Davvero vuol farci credere che non c’entri per nulla col suo popolo? Più vai avanti a leggere e, a parte un cenno al “torcicollismo” da evitare, più ti rendi conto della rimozione studiata e consapevole.

La parola “fascismo” viene citata di passaggio quattro o cinque volte nelle trecento pagine del libro. Non certo perché vi manchino i riferimenti storici. Anzi. Giorgia Meloni, compiaciuta di festeggiare il compleanno lo stesso giorno di Giovanna d’Arco, si dilunga su Leonida alle Termopili, Carlo Martello a Poitiers, l’ultimo imperatore cristiano di Costantinopoli, gli eroi veneziani della battaglia di Lepanto, e subito dopo, d’un balzo, Jan Palach che s’immola a Praga contro l’invasione sovietica. Lasciando però quel gran buco nero nel mezzo del Novecento. Come se non la riguardasse.

Bisognerà arrivare a pagina 248, nel capitolo sul razzismo, dopo che se l’è presa con Rula Jebreal “scarsa, bellissima, ben inserita nell’élite finanziaria”, per trovar citate “le camicie brune hitleriane, successivamente imitate da quelle nere mussoliniane, poi entrambe sconfitte dai buoni (scritto in corsivo, per concessione ironica)

del mondo che fecero la guerra contro i cattivi (idem) per combattere razzismo e totalitarismo”. Tralasciamo pure che le camicie nere mussoliniane vennero prima, e semmai a imitarle furono i nazisti tedeschi. Una tale descrizione della seconda guerra mondiale, in cui non si distinguono buoni e cattivi, è propedeutica alla stoccata a Gianfranco Fini, messa lì subito dopo senza citarlo: “Il mondo sarebbe molto più semplice se veramente esistesse il ‘male assoluto’ rappresentato dalla parentesi storica dell’ideologia nazifascista”. Nient’altro che una parentesi, ecco cosa sarebbe il momento fondativo, non ripudiato, del suo movimento.

Dovendosi addentrare nel campo minato della storia, se la cava così: “Non ho alcuna paura a ribadire per l’ennesima volta di non avere il culto del fascismo”. Semmai rivendica "una ferma ribellione nei confronti dell’antifascismo politico. Ma qui finisce il mio rapporto col fascismo”.

Ben diversa, naturalmente, è l’attenzione dedicata alla storia del comunismo. Per giungere a sostenere che “i liberal globalisti ne sono gli eredi”. A tal punto che “le politiche immigrazioniste hanno sostituito le deportazioni di massa dell’epoca sovietica”. Testuale.

Così l’operazione simpatia di Giorgia Meloni aggira gli ostacoli, si dilunga nella dimensione frugale e laboriosa della sua vita privata e della sua fede religiosa (anche se, da cattolica “non sempre ho compreso papa Francesco”), si concede perfino il lusso ecumenico di un paio di citazioni di Gramsci. Donna libera e moderna, pronta a diventare il volto nuovo di Palazzo Chigi contro la sinistra “braccio politico delle grandi concentrazioni e delle grandi multinazionali”. Facendola finita con il linguaggio politically correct, “vangelo dell’élite apolide”.

Un sovranismo che sa d’antico, rivestito di gentilezza forzata. Purché non torni a sbracare.

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