giovedì 27 maggio 2021

Carla Fracci e Milano, l’incredibile ascesa della figlia del tranviere che viveva in una casa di ringhiera

 


da: https://www.corriere.it/ - di Elisabetta Rosaspina

La ballerina scomparsa è sempre stata legatissima alla sua città, nonostante abbia viaggiato in tutto il mondo. Ecco una mappa dei suoi luoghi, dall’infanzia ad oggi

Si potrebbe tracciare un «itinerario Fracci» sulla mappa di Milano. Era lei stessa a descriverne spesso i punti d’interesse, i quartieri, gli indirizzi marcati nei suoi ricordi, dimenticando o volontariamente ignorando, di aver attraversato in settant’anni di carriera i boulevard e le avenue più prestigiose al mondo, da New York a Parigi, da Londra a Sydney, da Mosca a Città del Capo e a Buenos Aires.

«Io posso andare dappertutto – avvertiva -, ma Milano è sempre la mia città, la più bella». L’amava così tanto da non sopportarne i cambiamenti e le contraddizioni, da voler correggerne i difetti come si fa con una ballerina talentuosa ma indisciplinata, brillante ma viziata, altruista ma sbrigativa. Nel suo cuore c’era la periferia dov’era nata e cresciuta: via Ugo Tommei, tra Porta Vittoria e Porta Romana. Adolescente nel dopoguerra, usciva dalla scuola di ballo della Scala e, con il tram numero 13, iniziava il suo viaggio da piazza del Duomo verso viale Umbria, fino alla fermata di piazzale Martini, per arrivare dopo una lunga corsa fra gli alberi alla casa di ringhiera con bagno esterna, quella che poteva permettersi papà Luigi, grazie a lei il tranviere più noto di Milano: «Avevamo due stanze in quattro – raccontava -, per riuscire ad avere una camera in più chiesi aiuto a un pompiere della Scala che conosceva il sindaco, Aldo Aniasi, mi pare. Così ci trasferimmo in via Forze Armate 83».

Ricordava suo padre che, alla guida del tram della linea 1, non poteva trattenersi dallo scampanellare tre volte quando passava in piazza della Scala perché Carla, alla sbarra nella sala prove Trieste, lo sentisse e sapesse che stava pensando a lei. La bambina del tranviere lavorava sodo, «come un’operaia», soffrendo senza lamentarsi sulle punte delle sue scarpette, respirava diligentemente la polvere del palcoscenico, anche se non aveva scelto di sua volontà il mondo luccicante della danza. Da bambina sognava di vivere in campagna e di aprire un negozio da parrucchiera. Erano stati amici di famiglia a suggerire ai genitori di iscriverla alla scuola di ballo della Scala, perché era aggraziata, «sentiva» la musica. Ma la strada che ha amato di più è la prima in cui andò a vivere con il marito, il regista Beppe Menegatti, quando diventò prima ballerina della Scala, nel 1958: la centralissima via Santo Spirito, in un piccolo appartamento con vista sulle guglie del Duomo ottenuto grazie alla mediazione di Wally Toscanini. Venticinque anni dopo, all’inizio degli anni 80, la zona già le pareva meno accogliente, meno amichevole, specialmente di notte, con i lampioni frantumati a sassate, le saracinesche abbassate. Il lustro degli anni 80 e 90 non l’avevano poi così tanto riconciliata con la città inebriata dal proprio glamour. Le pareva troppo vanitosa e superficiale. Rimpiangeva le serate al Teatro Quartiere di piazzale Cuoco, negli anni 70.

Ma era anche ospite fissa, sul palco o in platea del Piccolo Teatro di via Rovelli, spesso accanto a Valentina Cortese, una delle sue amiche più grandi. Quando era stata sfrattata dalla proprietà, il Pio Albergo Trivulzio, dalla casa di via Santo Spirito, era approdata con il marito in zona Porta Nuova, il domicilio definitivo, dopo 10 anni di vita a Roma alla guida del corpo di ballo del Teatro dell’Opera. Ha amato Milano e la Scala che l’hanno ricambiata, certo, ma non al punto di esaudire il suo più grande desiderio, dirigerne il corpo di ballo o almeno aiutarla ad aprire la sua scuola: «So che io sono stata la bandiera della danza italiana – diceva, incredula di non trovare uno sponsor -, so che ho un’esperienza riconosciuta dal popolo, da cui ricevo tuttora immense dimostrazioni d’affetto. E so che vorrei tanto lavorare con i giovani. Ancora adesso mi impegnerei a fondo» insisteva, appena un anno fa. Chissà, forse si era creata qualche antipatia con il suo impegno politico, in prima linea alle manifestazioni del 25 aprile, talvolta in polemica con gli amministratori municipali, sempre dalla parte della Milano più semplice, come le aveva insegnato suo padre. Dopo la pandemia vedeva la sua città pronta a risorgere: «Dai sapori delle trattorie tipiche – diceva -. Dalla volontà individuale di fare, di non cedere, di riprendere il percorso interrotto».

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