sabato 28 gennaio 2017

Shoah: “Nel Diario di Anna Frank c’è ancora molto da scoprire”



da: http://www.internazionale.it/ - di Matteo Corradini, scrittore

Questo testo è un estratto dall’introduzione alla nuova edizione italiana del Diario di Anne Frank (Bur Rizzoli 2017). Ringraziamo l’autore e la casa editrice per la gentile concessione.


Con grandi finestre e larghe vetrate, le abitazioni di Amsterdam si specchiano vanitose sui canali. I loro inquilini per secoli le hanno disegnate col desiderio di trattenere la più piccola scintilla di chiarore che filtrasse nelle frequenti giornate di nubi. In nome e in cambio di quella luce ai passanti hanno permesso, e permettono tuttora, di scorgere le loro vite oltre i vetri senza tende. La quarta parete della casa, solida e rivolta agli spettatori, viene elusa dalle tante e spaziose aperture: l’immaginazione del passante può quindi sorvolare sulla curiosità iniziale (cosa contengano quelle stanze, chi le abiti), alla quale già rispondono gli occhi, per posarsi direttamente sulle storie, i gesti e le parole degli esseri viventi intravisti dalle finestre. È un immaginario che prelude alla casa di bambola, e fa somigliare a file di giocattoli le file ordinate di case affacciate sui canali. Non solo: è stato ispirazione nel tempo per un immaginario di illustrazioni e dipinti, a mostrarci case sezionate e aperte, descritte nel loro interno fin nei dettagli più piccoli, segreti domestici, manie e meraviglie nascoste.


La celebre copertina a scacchi rossi e bianchi del primo quaderno di Anne Frank è ben diversa dalle facciate delle tradizionali case olandesi, ma svolge una funzione perfettamente identica: svanire.

Nella lettura del Diario abbiamo la consapevolezza di muoverci oltre una copertina svanita. E con essa Anne Frank ci conduce nella sparizione di quegli elementi che si frappongono tra il nostro sguardo e la sua vita: le case dell’intera città, i muri perimetrali dell’edificio al 263 di Prinsengracht, la scaffalatura che conteneva schedari e celava l’apertura del nascondiglio, le pareti sottili delle poche stanze dove otto individui ebrei hanno cercato la salvezza per più di due anni. Anne Frank annulla ogni strato che si frapponga tra il lettore e le sue giornate, rende evanescenti il soffitto e il tetto dell’edificio, trasparenti le porte, smaterializza sovente i propri stessi abiti, dissolve le ultime difese di una ragazza spaventata e sognante.

La famiglia Frank si nasconde il 6 luglio 1942, dopo mesi di segreti preparativi da parte del padre. Anne abbandona la propria abitazione in Merwedeplein indossando uno sopra l’altro numerosi strati di vestiti. Arrivata nel nascondiglio, il retro della fabbrica diretta dal padre, dovrà dare inizio concreto a una spoliazione progressiva, che diverrà simbolica nel racconto del Diario. Il luogo dove i Frank si rifugiano ha l’aspetto di una casa, ma ogni possibilità esterna di osservare l’interno dell’abitazione era stata saggiamente preclusa: lunghi periodi quotidiani di coprifuoco, finestre oscurate (”in verità non si può parlare di tende perché sono solo semplici, freddi pezzi di stoffa, diversi per forma, qualità e motivi […]; questi capolavori sono stati attaccati alle finestre con delle puntine, e non verranno tolti per tutto il tempo in cui saremo nascosti qui”, 11 luglio 1942). Da fuori, nessuno doveva sospettare che in quell’edificio fossero nascosti ebrei: stracci contro i vetri delle finestre, spiragli ricoperti di cartone, buio. L’alloggio segreto, per Anne, rappresenta una chiusura contro l’esterno, una barriera che per metà si mostra angosciante e per metà fa assaporare la possibilità quotidiana di salvarsi, sfuggendo alla deportazione. Si fa ostacolo e protezione, diventa odiato e amato, a volte addirittura preferito alle stanze sottostanti, gli uffici della fabbrica:

“Quassù mi sento tuttora più al sicuro che non sola in quella casa grande e silenziosa.
26 maggio 1944

La fragilità della barriera e del segreto custodito dai Frank non risulta evidente soltanto dall’epilogo degli otto ebrei, arrestati e condannati a morte dai nazisti perché spinti nel flusso della deportazione, ma si mostra anzitutto ogni qual volta la realtà esterna irrompe, o spinge per tracimare all’interno. Non è un caso che Anne scriva le pagine iniziali del diario in forma di lettera alle amiche, chiedendo sovente una risposta, illudendosi che la realtà potesse ancora relazionarsi con il nascondiglio. Il 25 settembre 1942 Anne scrive a Jacque per salutarla:

“Quando mi hai telefonato domenica pomeriggio, non potevo dirti niente perché mia madre non voleva, tutta la casa era già sottosopra, e la porta d’ingresso era chiusa a chiave. Hello doveva venire ma nessuno gli ha aperto.

Anne racconta l’attimo nel quale inizia per la propria famiglia il periodo di segreto e latitanza: due eventi la mettono alla prova nel giro di poco, e lei li descrive usando pochissime parole. Sa che dal momento della decisione, accelerata dalla convocazione di Margot ai lavori forzati, tutto nei Frank è cambiato nonostante si trovino ancora a casa, nella propria casa. La realtà esterna in forma di telefonata irrompe nella vita di Anne, ma la ragazza non dice nulla; Hello suona alla porta, ma nessuno gli apre. Possiamo quasi vederlo, il ragazzo, attendere invano una risposta senza immaginare che oltre quei muri, salite le poche scale del condominio in Merwedeplein, tutti si erano zittiti per non essere scoperti nei preparativi della fuga. La vita nella cosiddetta “Casa sul retro”, nell’intimo della famiglia Frank, è già cominciata prima di varcarne la soglia.

Il percorso umano di Anne verrà segnato dal contrasto tra interno ed esterno, dal desiderio di fuggire e abbattere distanze, dal desiderio di rimanere a proteggersi, richiudersi ancor prima di rinchiudersi. Come le case dalle grandi finestre allineate sui canali, Anne si è trovata suo malgrado a cercare una luce che nel tempo si è mostrata sempre più fioca, a dare spazio a un dialogo fecondo e illusorio con una realtà esterna, un mondo al quale si sarebbe relazionata in modo probabilmente diverso, addirittura opposto, se lasciata in libertà.

Anne comprende che la quarta parete della propria esistenza è stata oscurata. Il provvidenziale diario, da lei scelto in una cartoleria-libreria a due passi da casa in vista del suo tredicesimo compleanno, diviene più forte di un semplice contenitore d’espressione: si tramuta esso stesso in finestra, realtà esterna. Anne lo utilizza per raccontare a se stessa il mondo dentro e fuori da sé. Il 10 ottobre 1942 il mondo bussa di nuovo, questa volta ai pensieri di Anne:

“Miep ha proposto di portarmi con sé una sera e farmi fare il bagno da lei, e riportarmi a casa la sera dopo. Ma è davvero troppo pericoloso perché potrebbe essere che qualcuno mi veda.

I Frank hanno già passato nascosti un centinaio di giorni, e forse Miep Gies, una dei benefattori che accudiscono i clandestini, pronuncia quelle parole senza crederci e con l’intento di dare speranza. Miep, figlia adottiva, aveva adottato a sua volta i clandestini. È solo un attimo, ma sufficiente per far balenare negli occhi di Anne, e nei nostri, l’intero percorso che da lì porta alla casa di Miep, le strade della città, i canali, i tetti, i colori dell’autunno, i ponti ricoperti di foglie gialle. Il caldo e la serenità di un bagno senza l’angoscia di essere ascoltati e sorpresi, senza la fretta di chi deve condividere l’acqua con altre sette persone; un letto in una casa libera, una notte distante dagli incubi, dalla tana dove stare rinchiusi come topi braccati, addormentarsi sulla federa pulita e chiudere gli occhi senza rimorsi come in quella foto da piccola, scattata dal padre ancora a Francoforte. È un pensiero leggerissimo e potente che deve aver attraversato la mente di Anne, per abbandonarla quasi subito alla prudenza e alla razionalità della paura.

Anne respira dalla fessura di una porta chiusa (12 febbraio 1944) rifrange la luce che viene da fuori e la tramuta in parole. Si avvicina alla spiritualità passando per l’espressione, fissa il cielo con la voglia di farsi raggiungere ancor prima di raggiungerlo. Il 23 febbraio 1944 scrive:

“Ma guardavo anche fuori dalla finestra aperta, verso un bel pezzo di Amsterdam sopra a tutti i tetti, fino all’orizzonte che si tingeva di viola. Finché questo esiste, pensavo, e io posso viverlo, questo sole, quel cielo, senza una nuvola, finché esiste non posso essere triste.

È tra i passi più celebri del Diario. La fragilità di Anne si esprime in un legame sottilissimo con un mondo che poco per volta le scompare tutto intorno. La sua speranza è racchiusa in un finché. E il Diario nasce, si appoggia e cresce intorno a quel finché, il finché che tiene in vita Shahrazad, porta all’altare dopo mille peripezie gli innamorati dei libri, permette ad Anne di non impazzire. “Spero mi sarai di gran sostegno, sono le prime profetiche righe.

Il 13 giugno 1944, il giorno che segue il suo quindicesimo compleanno, Anne ritorna allo stupore di chi vede il mondo.

“La serata buia e piovosa, la tempesta, le nuvole che si rincorrevano mi avevano rapita; dopo 1 anno e 1⁄2 per la prima volta ero di nuovo faccia a faccia con la notte.

Per il genere di esperienza vissuta, e per il modo nel quale tutto era stato preparato, i 25 mesi di nascondimento sono stati un lungo e terribile faccia a faccia con una notte senza luci, piena di terrore e angoscia, sussurri, piedi scalzi trascinati sul pavimento, ripetitività e noia, convivenza entro spazi ridottissimi, equilibri fragilissimi mantenuti con grande forza, rarissimi chiarori nelle tenebre. In un’esistenza di porte chiuse, finestre sbarrate, bocche mute, le pagine del diario sono l’unica cosa che Anne può aprire. Finché c’è il diario, il racconto dei giorni permette all’esistenza stessa di protrarsi, continuare, permette ad Anne di percorrere una distanza e spostarsi dal proprio passato.

“Quando qualcuno arriva da fuori, con il vento sui vestiti e il freddo sulla faccia, vorrei ficcare la testa sotto le coperte per non pensare: ‘Quand’è che potremo respirare l’aria fresca anche noi’.
24 dicembre 1943

Il diario
Nata il 12 giugno 1929 a Francoforte sul Meno da Edith e Otto, Anne Frank ha una sorella di tre anni più grande, Margot. Di famiglia ebraica, nel 1933 si trasferisce con gli altri componenti ad Amsterdam dopo l’ascesa dei nazionalsocialisti in Germania e l’acuirsi delle violenze contro gli ebrei e i loro beni. Nella città olandese Otto Frank dirige la Opekta, fabbrica produttrice di aromi e pectina situata nel centro della città, e permette alla propria famiglia di vivere un tempo relativamente sereno fino all’arrivo dell’esercito nazista, che conquista i Paesi Bassi nell’arco di pochi giorni, nel maggio 1940. Nell’ambito del più ampio progetto di sterminio degli ebrei europei, i nazisti istituiscono anche ad Amsterdam le modalità di oppressione, spoliazione e deportazione già sperimentate in tante altre città del Reich. I Frank, vistasi rifiutare la possibilità di emigrare negli Stati Uniti e impossibilitati a fuggire altrove, trovano rifugio in alcune stanze sistemate nell’edificio retrostante alla Opekta, al 263 di Prinsengracht. Con loro, la famiglia Van Pels (Hermann, Auguste e Peter) e poco tempo dopo il signor Fritz Pfeffer. Circa tre settimane prima, per il suo tredicesimo compleanno, Anne riceve in dono un diario, la cui scrittura la accompagnerà fino al 1 agosto 1944. Il 4 agosto gli otto clandestini vengono scoperti e arrestati, a seguito di una delazione, imprigionati e successivamente tradotti nel lager di transito di Westerbork. Da lì verranno tutti deportati ad Auschwitz, dove i loro destini prenderanno strade diverse. Alla fine del conflitto solo Otto Frank sopravvivrà allo sterminio e farà ritorno ad Amsterdam.

Attimi
Due generi di documenti raccontano la vita di Anne Frank: il più importante è certamente costituito dagli scritti, ma non poco valore hanno le numerose fotografie. Scattate soprattutto dal padre, appassionato del mezzo e sufficientemente benestante per possederne uno e utilizzarlo con regolarità, coprono l’arco di vita di Anne già dalla prima infanzia, costellandolo di immagini, momenti familiari, quotidianità, con Margot e la madre, da sola, al banco di scuola, al pattinaggio dell’Apollohal, con le amiche nelle strade intorno a Merwedeplein, in terrazza, al parco. Attimi simbolici e istantanei, dove la faccia da secondogenita sbarazzina e spensierata di Anne campeggia su tutto, sulla compostezza della madre e sulla maturità della sorella, oppure interi set fotografici dove Anne aveva modo di divertirsi assumendo pose e atteggiamenti che oggi interpretiamo come estremamente attuali.

Nel nascondiglio le foto terminano. Foto e diario non si sovrappongono e là dove si spengono le immagini visibili, scompaiono il volto e il corpo di Anne, svaniscono in un nulla che chiede a noi lettori di figurarceli e renderli di nuovo concreti attraverso le parole. Il Diario lo permette e diviene la prosecuzione delle fotografie: descrive attimi simbolici e brevi, istantanee mentali, pensieri fugaci che balenano solo per un attimo nell’aria e vanno fissati in fretta, prima che siano dimenticati.

Diario e foto compongono un corpus unico nella storia della piccola dei Frank, un percorso che va dall’immaginario all’immaginazione e che Anne percepisce e riafferma nel suo stile e nelle rare scelte di libertà all’interno del nascondiglio: i muri della sua stanza da letto, condivisa con Fritz Pfeffer, mostravano un’esposizione di istantanee, perlopiù ritagliate da giornali e riviste di spettacolo. Volti di star del cinema americano e olandese, che difficilmente guardano fisse davanti a sé ma oltre: Deanna Durbin, Greta Garbo in Ninotchka (l’unico film in cui l’attrice svedese sorride), Ginger Rogers, Norma Shearer, opere d’arte, illustrazioni… Con forbici e colla, Anne ricrea un Olimpo fotografico dove i frammenti infinitesimali di vite altrui si fissano al muro di colei che racconta i frammenti della propria, con passione e frequenza assidua.

Insieme alle fotografie, la scuola e i libri hanno evidentemente influenzato l’indole letteraria di Anne. Studentessa in uno dei molti istituti Montessori che già allora punteggiavano Amsterdam, il “Sesto” (oggi a lei intitolato), Anne cresce in un ambiente culturale dove l’espressione, e l’espressione di sé, non rappresentano aspetti marginali del metodo formativo ma anzi ne costituiscono il nucleo principale. Il metodo Montessori, già allora così celebre e valorizzato all’estero, prevede che l’educazione degli allievi passi attraverso l’interesse autentico, la libertà di creazione, e su tutto una grande idea di fiducia nei ragazzi e di indipendenza che dia gusto alle loro azioni. Anne cresce stimolata dalla famiglia – suo padre è stato per lavoro in mezza Europa e a New York – e rinfrancata da un’istituzione scolastica che libera Anne mentre Anne è ancora in libertà. Dopo, è troppo tardi per liberarsi: l’impressione, da più di un punto di vista e attraverso storie diverse, è che si possa vivere liberi nella prigione della dittatura nazista solo se prima, nel tempo della formazione, si è coltivata un’idea solida di libertà. Per Anne fu così.

“Giudico me stessa in un’inverosimile quantità di cose e vedo sempre più quanto fossero vere le parole di papà: ‘ogni bambino deve educarsi da solo’. I genitori possono solo dare consigli o buone indicazioni, ma la formazione definitiva del carattere di una persona è nelle sue stesse mani.
15 luglio 1944

Anne non scrive il diario come reazione all’oppressione, ma perché ragazza abituata alla libertà e all’ironia: fu più forte di lei, in qualche modo, come se gli anni della libertà avessero segnato un destino culturale. Quel microcosmo scolastico che l’aveva plasmata si era in fondo ricreato all’interno del nascondiglio. Anne, Margot e Peter seguono corsi, completano compiti, tengono allenata la conoscenza delle lingue, praticano piccoli lavori. Il padre stesso li segue alternandosi tra la figura del maestro e quella del compagno di studi. La clandestinità torna a essere scuola, là dove i benefattori diventano insegnanti inconsapevoli che da fuori, da quella città occupata e dal mondo ben più vasto, portano notizie, giornali e riviste, fotografie, aria buona, piccole speranze: necessità primarie per Anne, così desiderosa di conoscere e sapere.

Le letture di cui Anne è vorace fanno parte dello stesso desiderio. Il tempo del nascondiglio era lungo e Anne impiegava pochissimi giorni per terminare ogni volume: nel fine settimana ne arrivavano di nuovi, portati dai benefattori, e lei attendeva quel momento con particolare impazienza. A più riprese si definisce “lettrice di romanzetti”, perché così venivano giudicate le pagine da lei amate. Oggi osserviamo con occhi diversi quelle parole: si trattava di romanzi di formazione, storie giovanili a puntate, pieni di amori, amicizie, avventure, disubbidienze, piccoli anticonformismi, ribellioni pomeridiane. Letture superficiali e un po’ stereotipate, a volte, e non sempre scelte direttamente da Anne (i benefattori recuperavano quello che offriva una delle biblioteche vicine – ad Amsterdam se ne contavano 101), ma che le permisero di trovare una propria strada originale, compiere passi in autonomia e confrontare il proprio intimo con gli episodi verosimili dei libri e soprattutto con la libertà assoluta dei loro protagonisti.

La formazione stilistica di Anne sembra dunque provenire da una dimestichezza con l’istantanea fotografica, dalla disciplina della libertà sperimentata nella scuola montessoriana, dal confronto tra il pensiero e la lettura. Anne Frank, costretta all’angolo dai nazisti, può guardare a se stessa senza richiudersi, memore del proprio percorso, e tramutare in diario la propria formazione umana, traducendo in parole la sua intimità coltivata dalle esperienze. Col Diario, Anne rende giustizia del tempo tramutandolo in espressione, ossia compie il primo passo di un percorso artistico.

Margini
Il tempo della narrazione scorre diversamente dal tempo che conosciamo, e il bozzolo d’arte contenuto nelle pagine del diario necessitò di un proprio tempo per divenire farfalla.

“Anche se ti racconto molto di noi, non conosci comunque che una piccola parte della nostra vita.

È il 28 marzo 1944, Anne osserva l’incompletezza del proprio diario con sollievo, si rende conto che nemmeno l’amica di carta che l’ha accompagnata fin lì può comprendere e racchiudere tutta l’esperienza del nascondiglio. Anne testimonia davanti a se stessa che il tempo è passato e ha lasciato il segno. A una lettura attenta, il tempo scandito e chiamato per nome da Anne viene continuamente disatteso ed eluso, come scorresse su due differenti piani.

L’uno più evidente e di superficie: il passare dei giorni e degli anni, la cadenza delle feste comandate, dei compleanni, degli avvenimenti di cronaca raccontati nel diario; un piano inclinato che porta inesorabilmente alla fine, agli occhi di noi che sappiamo, e che conduce al desiderio di sopravvivenza, agli occhi di Anne. È il tempo del racconto, degli episodi, dei dialoghi trascritti.

L’altro è nascosto e in parte menzognero, un tempo dove Anne gioca a scavare in una profondità che non conosce calendari, prova a rincorrere il proprio tempo in una prospettiva originale, rendendolo longevo, continuamente giovane. Prova ne sono i nomi fittizi dei protagonisti, scelti da Anne a tutela dei compagni di sventura ma anche a trasfigurazione di quanto stava avvenendo; i tanti pensieri scritti o datati nello stesso giorno (le tante pagine del 28 settembre 1942 sono un esempio illuminante), frutto evidente di riflessioni precedenti, malumori e speranze accuditi nel cuore e finalmente fissati sulla carta, quasi a volersene liberare perché troppo pesanti da portare. E prova ancor più forte sono i cosiddetti “fogli sparsi”, che riavvolgono il tempo del nascondiglio su se stesso e permettono ad Anne di ritornare sui propri giorni rivivendoli daccapo, in un’operazione piena di letteratura ma anche di coraggio, poiché la rivisitazione fa riaffiorare tutto: le angosce, le paure, anche i dolori. Proprio tra i fogli ricopiati, il 14 agosto 1942 Anne scrive:

“Di mattina alle 9 e mezzo (noi stavamo ancora facendo colazione) è arrivato Peter, il figlio dei v. Pels di nemmeno 16 anni, uno spilungone piuttosto timido e noioso, non ci si aspetta molto dalla sua compagnia.

Queste righe nascono tra maggio e giugno del 1944, quasi due anni dopo la loro intitolazione temporale. Anne riscrive un episodio del nascondiglio e lo fa rispettandone la datazione che lei ricordava. Ma lo fa molto tempo dopo, e in quel tempo la conoscenza con Peter si era fatta forte, energica d’amore ma anche deludente, speranzosa e accesa di passione. Eppure, scrivendo, Anne ritorna sui propri passi e finge di dimenticare per poter paradossalmente ricordare e riproporre a se stessa le sensazioni avute nel suo primo incontro con Peter. Il tempo si riavvolge con forza, qui, e costringe Anne a rinnovare i pensieri, permettendo loro di rinascere.

Nella primavera del 1944, con la decisione di riscrivere il proprio diario, Anne matura la consapevolezza del tempo, percepisce il distacco di chi è solito scriverne e inizia a osservare tutto con leggerezza e ispirazione. È la maturità che giunge.

“Ci siamo raccontati così tante cose, ma così tante, che non posso ripeterle tutte, ma è stato stupendo, la più bella serata che abbia mai passato nella Casa sul retro.
19 marzo 1944

La distanza temporale tra il concepimento di un’idea e la nascita di un pensiero scritto permea le pagine, così che i quaderni, i fogli sparsi, i blocchi di appunti, l’intera materia scritta da Anne Frank appaiono oggi non solo come il diario fisico dei giorni di chi lo scrisse, del corpo di una ragazza e di quanto avvenne intorno a lei, bensì soprattutto del diario spirituale di un’adolescente, nell’ordine mentale che lei stessa aveva stabilito.

In quel margine tra il tempo che scorre e il tempo della scrittura nascono le storie dei libri. Così per Anne, che ragionando d’amore percepisce la lontananza creata in profondità tra pensiero e concretezza, tra la parte più razionale e quella più illuminata dalla fantasia, e questa distanza la atterrisce.

“Ho paura di me stessa, ho paura di concedermi troppo presto al mio desiderio, come potrà andar bene con gli altri ragazzi, poi? Oh, è così difficile, c’è sempre il cuore con la ragione, ciascuno deve parlare a suo tempo ma sono sicura, io, di aver scelto bene il tempo?
28 aprile 1944


Nell’oscurità forzata, Anne è costretta a illuminarsi, a trovare in se stessa le forze. La sua scrittura nasce in questo scontro e ne prosegue gli intenti, abita Anne e ne diviene il domicilio più sicuro, nel buio, nel silenzio. È un domicilio temporaneo, che coinvolge Anne per un tempo breve in ogni giornata. Quando Anne descrive i propri impegni all’interno del nascondiglio, quasi ci stupiamo:

“Sbucciare le patate: dalle 9 e mezzo alle 10 o 10 e mezzo. Lavoro sui libri; con interruzioni per parlare, scrivere il diario, chiacchierare e non far niente (a volte anche caffè ± alle 11 meno un quarto), dalle 10 e mezzo alle 12.
20 marzo 1944

Eppure il tempo pur fugace della scrittura riesce a magnetizzare la totalità del tempo. È un lavoro forte ma tutt’altro che regolare, pieno di ripensamenti e ritorni, andirivieni di stile:

“Negli ultimi tempi non ho nessuna voglia di trascrivere quello che succede qui. Mi stanno molto più a cuore i miei interessi personali.
10 marzo 1944

L’ebraismo
Nata ebrea, fuggiasca perché ebrea, ricercata perché ebrea, clandestina perché ebrea, arrestata, deportata e uccisa perché ebrea. Eppure Anne Frank vive un ebraismo alquanto laico, caratterizzato da pochissimi segni di appartenenza e da un’ampia libertà d’azione. Un ebraismo mitteleuropeo distante dall’ortodossia, che diviene appartenenza a una comunità vasta ed eterogenea. Quel che rimane delle tradizioni dipende quasi esclusivamente dalla madre, che ancora mantiene in seno alla famiglia Frank alcune usanze, i libri di preghiere, piccole e importanti ritualità domestiche. Ma il cattivo rapporto con la madre non aiuta Anne nemmeno a confrontarsi serenamente con l’ebraismo, quasi essa intaccasse il legame matriarcale con il passato. L’ebraismo di Anne Frank è preghiera con il padre, ma soprattutto solitudine. Alla sera, nei gesti quotidiani che precedono il sonno, Anne non dimentica la santificazione.

“Pensare, sognare, pregare e rilassarsi: 10 meno un quarto – 10 e un quarto.
20 marzo 1944

Ma è solo un accenno. Anne nomina e scrive il nome del Creatore, non rispetta le tradizioni alimentari, arrivando a raccontare del sanguinaccio (bloedworst) preparato e consumato in giorno di Shabbat, contravvenendo al riposo e al divieto di cibarsi di sangue (Poiché la vita della carne è nel sangue – LV 17, 11), contraddice l’ortodossia.

Solo una figura familiare la porta a interrogarsi sulle proprie origini ebraiche, permettendo all’affettività di divenire un tramite tra il distacco del presente e la religiosità del passato: la nonna materna. L’affetto per la nonna spinge Anne a rispettarne le volontà, ad aggiungere la candela per lei tra le candele di Hanukkah nel primo anno di nascondimento, e a percepire nel rapporto con l’anziana un legame spirituale che può sorreggerla e fortificarla.

“Quando stasera (venerdì sera 8 meno 5) ho guardato la candela, di nuovo mi sono sentita calma e contenta.
Nella candela c’è la nonna ed è la nonna a proteggermi e difendermi e rendermi ancora felice.
3 marzo 1944

E, pochi giorni dopo:
“So di avere Dio, Dio e la nonna e ancora tanto altro ed è questo che mi tiene in piedi. Senza quella voce che promette sempre conforto e bene, avrei già perso la speranza molto tempo fa, senza Dio sarei già crollata da tempo.
12 marzo 1944

La parola, ancora una volta, sorregge Anne e non la fa impazzire. È la parola a salvarla. Quella sua parola pronunciata con difficoltà, scritta con stile fragile e a tratti affrettato, o quella del padre o della nonna, quella parola attesa da Peter, o la parola letta sui romanzi, o ancora la parola ascoltata al radiogiornale, che invita a lasciar traccia delle proprie storie negli anni di guerra: le parole danno senso alla clandestinità, danno sostanza alla salvezza, le permettono di far discendere la speranza da un’interpretazione spirituale degli eventi.

“Chi ci ha inflitto tutto questo? Chi ha reso noi ebrei un’eccezione in mezzo a tutti i popoli? Chi ci ha fatti soffrire così tanto finora? È stato Dio a farci così, ma sarà anche Dio a risollevarci. Se sopporteremo tutta questa sofferenza e alla fine rimarranno ancora degli ebrei, allora gli ebrei, da condannati che erano, diverranno esempi. Chissà, forse un giorno sarà la nostra fede a insegnare il bene al mondo e così a tutti i popoli e per questo, soltanto per questo, dobbiamo anche soffrire. Noi non potremo mai diventare solo olandesi o solo inglesi o di qualunque altra nazione, noi rimarremo sempre e comunque anche ebrei; dovremo restare ebrei, ma vogliamo anche restarlo.

È il 9 aprile 1944, è l’ultima primavera che Anne Frank vive, senza saperlo. La sua parola diviene velo, e arriva a rappresentare meglio di qualsiasi altro aspetto l’autentica identità di Anne, ebrea che vive nel margine tra pensiero e creazione, tra storia dimenticata e storie da ricordare a ogni costo. La parola velata è l’ebraismo del Novecento, chiuso in una casa sul retro, in una stanza, in una ragazza di quasi quindici anni.

Una di sei milioni
“Visto che non hai mai vissuto una guerra, Kitty, e nonostante tutte le mie lettere sai ancora troppo poco di cosa sia nascondersi, per divertirti ti racconterò qual è il primo desiderio di noi otto quando un giorno torneremo fuori. Margot e il Signor v. Pels desiderano più di ogni altra cosa un bagno caldo per intero e vogliono rimanerci più di mezz’ora. La signora v.P. vuole andare a mangiarsi delle torte, Pf. non conosce altro che la sua Charlotte, la mamma la sua tazza di caffè, Papà va da Voskuyl, Peter in centro e al cinema e io per la meraviglia non saprei proprio da dove incominciare.
3 aprile 1944

Anne Frank muore di tifo nel febbraio 1945, nel campo di concentramento di Bergen-Belsen, in Germania. Viene sepolta in una fossa comune e oggi non esiste un luogo preciso dove poterla pensare o pregare. Al posto delle molte baracche del lager, messo a fuoco dai liberatori nel tentativo di debellare l’epidemia mortale, c’è un bellissimo prato circondato da una meravigliosa foresta. La vita di Anne si differenzia come uno scarto con la morte: tanto la prima è originale, quanto la seconda, nello sterminio programmato nazista, diviene uguale a quella di decine, centinaia di migliaia di altre. Il destino di quasi sei milioni di ebrei europei è condiviso da una in più, venuta dalla Germania, vissuta in Olanda, passata per Auschwitz. La sua storia unica si inserisce in una miriade di storie uniche, che si somigliano, si richiamano, ci interpellano. Felicità e contentezza, da Anne così approfondite nella sua scrittura e così poco vissute, chiedono a noi lettori di confrontarci con il senso di una morte vuota e priva di racconti, se non di sparute e fragili testimonianze, vuota come il prato a Bergen-Belsen, oggi senza baracche, camini, segni esteriori dei quali sono ricchi, a volte sfacciatamente, gli altri lager.

Sii gentile e coraggiosa”, scrisse Anne in francese sul risvolto dell’ultimo quaderno. Il Diario è la storia di una ragazza, in fondo, chiusa per salvarsi in una scatolina dalle pareti troppo sottili, che conduce fino a noi le sue parole, che chiede a noi di ritrovare tra le righe e tra le pagine i messaggi che ha seminato con cura.

“e meraviglioso sapere che qualcuno aspetta me.
17 aprile 1944

Una nuova edizione del Diario risponde in fondo a questa richiesta: attendere ancora, a modo nostro, Anne Frank. Con il suo carico di pensieri, mesi di giorni e notti di lavoro, confronti, ripensamenti, parole che non ti abbandonano per ore intere e che riappaiono all’alba seguente come trasfigurate, riportare le parole del diario alla loro lucentezza iniziale rappresenta il prolungamento dell’esistenza di una storia. Significa, forse, pronunciare di nuovo quel finché scritto da Anne. Da lettori, siamo noi la casa sul retro. Finché leggiamo abbiamo la sensazione di poterla proteggere ancora, posticipare l’arresto di Anne e la sua partenza, accudirla.

Con la consapevolezza che quel finché è stato solo un sogno, che il distacco non si può evitare. Con la certezza di non poter entrare, mai, nell’ultimo pensiero e comprendere fino in fondo la fantasiosa volontà di quella ragazza che si chiamava Annelies Marie Frank. E ricordarsi ad ogni riga che non la osserviamo scrivere guardandola in faccia, come si guardano gli scrittori; ma da qualche passo indietro, lei alla sua scrivania di penne, matite e fogli disordinati, fotografie appese, frasi appuntate. Di spalle, ecco. Come si guardano i figli.
Amsterdam, autunno 2015

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