da: http://www.internazionale.it/ - di Matteo Corradini, scrittore
Questo testo è un estratto dall’introduzione alla
nuova edizione italiana del Diario di Anne Frank
(Bur Rizzoli 2017). Ringraziamo l’autore e la casa editrice per la
gentile concessione.
Con grandi finestre e larghe vetrate, le abitazioni di Amsterdam si specchiano vanitose sui canali. I loro inquilini per secoli le hanno disegnate col desiderio di trattenere la più piccola scintilla di chiarore che filtrasse nelle frequenti giornate di nubi. In nome e in cambio di quella luce ai passanti hanno permesso, e permettono tuttora, di scorgere le loro vite oltre i vetri senza tende. La quarta parete della casa, solida e rivolta agli spettatori, viene elusa dalle tante e spaziose aperture: l’immaginazione del passante può quindi sorvolare sulla curiosità iniziale (cosa contengano quelle stanze, chi le abiti), alla quale già rispondono gli occhi, per posarsi direttamente sulle storie, i gesti e le parole degli esseri viventi intravisti dalle finestre. È un immaginario che prelude alla casa di bambola, e fa somigliare a file di giocattoli le file ordinate di case affacciate sui canali. Non solo: è stato ispirazione nel tempo per un immaginario di illustrazioni e dipinti, a mostrarci case sezionate e aperte, descritte nel loro interno fin nei dettagli più piccoli, segreti domestici, manie e meraviglie nascoste.
La celebre
copertina a scacchi rossi e bianchi del primo quaderno di Anne Frank è ben
diversa dalle facciate delle tradizionali case olandesi, ma svolge una funzione
perfettamente identica: svanire.
Nella lettura
del Diario abbiamo
la consapevolezza di muoverci oltre una copertina svanita. E con essa Anne
Frank ci conduce nella sparizione di quegli elementi che si frappongono tra il
nostro sguardo e la sua vita: le case dell’intera città, i muri perimetrali
dell’edificio al 263 di Prinsengracht, la scaffalatura che conteneva schedari e
celava l’apertura del nascondiglio, le pareti sottili delle poche stanze dove
otto individui ebrei hanno cercato la salvezza per più di due anni. Anne Frank
annulla ogni strato che si frapponga tra il lettore e le sue giornate, rende
evanescenti il soffitto e il tetto dell’edificio, trasparenti le porte,
smaterializza sovente i propri stessi abiti, dissolve le ultime difese di una
ragazza spaventata e sognante.
La famiglia
Frank si nasconde il 6 luglio 1942, dopo mesi di segreti preparativi da parte
del padre. Anne abbandona la propria abitazione in Merwedeplein indossando uno
sopra l’altro numerosi strati di vestiti. Arrivata nel nascondiglio, il retro
della fabbrica diretta dal padre, dovrà dare inizio concreto a una spoliazione
progressiva, che diverrà simbolica nel racconto del Diario. Il luogo
dove i Frank si rifugiano ha l’aspetto di una casa, ma ogni possibilità esterna
di osservare l’interno dell’abitazione era stata saggiamente preclusa: lunghi
periodi quotidiani di coprifuoco, finestre oscurate (”in verità non si può
parlare di tende perché sono solo semplici, freddi pezzi di stoffa, diversi per
forma, qualità e motivi […]; questi capolavori sono stati attaccati alle
finestre con delle puntine, e non verranno tolti per tutto il tempo in cui
saremo nascosti qui”, 11 luglio 1942). Da fuori, nessuno doveva
sospettare che in quell’edificio fossero nascosti ebrei: stracci contro i vetri
delle finestre, spiragli ricoperti di cartone, buio. L’alloggio segreto, per
Anne, rappresenta una chiusura contro l’esterno, una barriera che per metà si
mostra angosciante e per metà fa assaporare la possibilità quotidiana di
salvarsi, sfuggendo alla deportazione. Si fa ostacolo e protezione, diventa
odiato e amato, a volte addirittura preferito alle stanze sottostanti, gli uffici
della fabbrica:
“Quassù mi sento tuttora più al sicuro che non sola in
quella casa grande e silenziosa.
26 maggio 1944
La fragilità
della barriera e del segreto custodito dai Frank non risulta evidente soltanto
dall’epilogo degli otto ebrei, arrestati e condannati a morte dai nazisti
perché spinti nel flusso della deportazione, ma si mostra anzitutto ogni qual
volta la realtà esterna irrompe, o spinge per tracimare all’interno. Non è un
caso che Anne scriva le pagine iniziali del diario in forma di lettera alle
amiche, chiedendo sovente una risposta, illudendosi che la realtà potesse
ancora relazionarsi con il nascondiglio. Il 25 settembre 1942 Anne scrive a
Jacque per salutarla:
“Quando mi hai telefonato domenica pomeriggio, non
potevo dirti niente perché mia madre non voleva, tutta la casa era già
sottosopra, e la porta d’ingresso era chiusa a chiave. Hello doveva venire ma
nessuno gli ha aperto.
Anne racconta
l’attimo nel quale inizia per la propria famiglia il periodo di segreto e
latitanza: due eventi la mettono alla prova nel giro di poco, e lei li descrive
usando pochissime parole. Sa che dal momento della decisione, accelerata dalla
convocazione di Margot ai lavori forzati, tutto nei Frank è cambiato nonostante
si trovino ancora a casa, nella propria casa. La realtà esterna in forma di
telefonata irrompe nella vita di Anne, ma la ragazza non dice nulla; Hello
suona alla porta, ma nessuno gli apre. Possiamo quasi vederlo, il ragazzo,
attendere invano una risposta senza immaginare che oltre quei muri, salite le
poche scale del condominio in Merwedeplein, tutti si erano zittiti per non
essere scoperti nei preparativi della fuga. La vita nella cosiddetta “Casa sul
retro”, nell’intimo della famiglia Frank, è già cominciata prima di varcarne la
soglia.
Il percorso
umano di Anne verrà segnato dal contrasto tra interno ed esterno, dal desiderio
di fuggire e abbattere distanze, dal desiderio di rimanere a proteggersi,
richiudersi ancor prima di rinchiudersi. Come le case dalle grandi finestre
allineate sui canali, Anne si è trovata suo malgrado a cercare una luce che nel
tempo si è mostrata sempre più fioca, a dare spazio a un dialogo fecondo e
illusorio con una realtà esterna, un mondo al quale si sarebbe relazionata in
modo probabilmente diverso, addirittura opposto, se lasciata in libertà.
Anne comprende
che la quarta parete della propria esistenza è stata oscurata. Il
provvidenziale diario, da lei scelto in una cartoleria-libreria a due passi da
casa in vista del suo tredicesimo compleanno, diviene più forte di un semplice
contenitore d’espressione: si tramuta esso stesso in finestra, realtà esterna.
Anne lo utilizza per raccontare a se stessa il mondo dentro e fuori da sé. Il
10 ottobre 1942 il mondo bussa di nuovo, questa volta ai pensieri di Anne:
“Miep ha proposto di portarmi con sé una sera e farmi
fare il bagno da lei, e riportarmi a casa la sera dopo. Ma è davvero troppo
pericoloso perché potrebbe essere che qualcuno mi veda.
I Frank hanno
già passato nascosti un centinaio di giorni, e forse Miep Gies, una dei
benefattori che accudiscono i clandestini, pronuncia quelle parole senza
crederci e con l’intento di dare speranza. Miep, figlia adottiva, aveva
adottato a sua volta i clandestini. È solo un attimo, ma sufficiente per far
balenare negli occhi di Anne, e nei nostri, l’intero percorso che da lì porta
alla casa di Miep, le strade della città, i canali, i tetti, i colori
dell’autunno, i ponti ricoperti di foglie gialle. Il caldo e la serenità di un
bagno senza l’angoscia di essere ascoltati e sorpresi, senza la fretta di chi
deve condividere l’acqua con altre sette persone; un letto in una casa libera,
una notte distante dagli incubi, dalla tana dove stare rinchiusi come topi
braccati, addormentarsi sulla federa pulita e chiudere gli occhi senza rimorsi
come in quella foto da piccola, scattata dal padre ancora a Francoforte. È un
pensiero leggerissimo e potente che deve aver attraversato la mente di Anne,
per abbandonarla quasi subito alla prudenza e alla razionalità della paura.
Anne respira
dalla fessura di una porta chiusa (12 febbraio 1944) rifrange la luce che viene
da fuori e la tramuta in parole. Si avvicina alla spiritualità passando per
l’espressione, fissa il cielo con la voglia di farsi raggiungere ancor prima di
raggiungerlo. Il 23 febbraio 1944 scrive:
“Ma guardavo anche fuori dalla finestra aperta, verso
un bel pezzo di Amsterdam sopra a tutti i tetti, fino all’orizzonte che si
tingeva di viola. Finché questo esiste, pensavo, e io posso viverlo, questo
sole, quel cielo, senza una nuvola, finché esiste non posso essere triste.
È tra i passi
più celebri del Diario. La fragilità di Anne si esprime in un legame
sottilissimo con un mondo che poco per volta le scompare tutto intorno. La sua
speranza è racchiusa in un finché. E il Diario nasce, si appoggia
e cresce intorno a quel finché, il finché che tiene in vita
Shahrazad, porta all’altare dopo mille peripezie gli innamorati dei libri,
permette ad Anne di non impazzire. “Spero mi sarai di gran sostegno”,
sono le prime profetiche righe.
Il 13 giugno
1944, il giorno che segue il suo quindicesimo compleanno, Anne ritorna allo
stupore di chi vede il mondo.
“La serata buia e piovosa, la tempesta, le nuvole che
si rincorrevano mi avevano rapita; dopo 1 anno e 1⁄2 per la prima volta ero di
nuovo faccia a faccia con la notte.
Per il genere
di esperienza vissuta, e per il modo nel quale tutto era stato preparato, i 25
mesi di nascondimento sono stati un lungo e terribile faccia a faccia con una
notte senza luci, piena di terrore e angoscia, sussurri, piedi scalzi
trascinati sul pavimento, ripetitività e noia, convivenza entro spazi
ridottissimi, equilibri fragilissimi mantenuti con grande forza, rarissimi
chiarori nelle tenebre. In un’esistenza di porte chiuse, finestre sbarrate,
bocche mute, le pagine del diario sono l’unica cosa che Anne può aprire. Finché
c’è il diario, il racconto dei giorni permette all’esistenza stessa di
protrarsi, continuare, permette ad Anne di percorrere una distanza e spostarsi
dal proprio passato.
“Quando qualcuno arriva da fuori, con il vento sui
vestiti e il freddo sulla faccia, vorrei ficcare la testa sotto le coperte per
non pensare: ‘Quand’è che potremo respirare l’aria fresca anche noi’.
24 dicembre
1943
Il diario
Nata il 12
giugno 1929 a Francoforte sul Meno da Edith e Otto, Anne Frank ha una sorella
di tre anni più grande, Margot. Di famiglia ebraica, nel 1933 si trasferisce
con gli altri componenti ad Amsterdam dopo l’ascesa dei nazionalsocialisti in
Germania e l’acuirsi delle violenze contro gli ebrei e i loro beni. Nella città
olandese Otto Frank dirige la Opekta, fabbrica produttrice di aromi e pectina
situata nel centro della città, e permette alla propria famiglia di vivere un
tempo relativamente sereno fino all’arrivo dell’esercito nazista, che conquista
i Paesi Bassi nell’arco di pochi giorni, nel maggio 1940. Nell’ambito del più
ampio progetto di sterminio degli ebrei europei, i nazisti istituiscono anche
ad Amsterdam le modalità di oppressione, spoliazione e deportazione già
sperimentate in tante altre città del Reich. I Frank, vistasi rifiutare la
possibilità di emigrare negli Stati Uniti e impossibilitati a fuggire altrove,
trovano rifugio in alcune stanze sistemate nell’edificio retrostante alla
Opekta, al 263 di Prinsengracht. Con loro, la famiglia Van Pels (Hermann,
Auguste e Peter) e poco tempo dopo il signor Fritz Pfeffer. Circa tre settimane
prima, per il suo tredicesimo compleanno, Anne riceve in dono un diario, la cui
scrittura la accompagnerà fino al 1 agosto 1944. Il 4 agosto gli otto
clandestini vengono scoperti e arrestati, a seguito di una delazione,
imprigionati e successivamente tradotti nel lager di transito di Westerbork. Da
lì verranno tutti deportati ad Auschwitz, dove i loro destini prenderanno
strade diverse. Alla fine del conflitto solo Otto Frank sopravvivrà allo
sterminio e farà ritorno ad Amsterdam.
Attimi
Due generi di
documenti raccontano la vita di Anne Frank: il più importante è certamente
costituito dagli scritti, ma non poco valore hanno le numerose fotografie.
Scattate soprattutto dal padre, appassionato del mezzo e sufficientemente
benestante per possederne uno e utilizzarlo con regolarità, coprono l’arco di
vita di Anne già dalla prima infanzia, costellandolo di immagini, momenti
familiari, quotidianità, con Margot e la madre, da sola, al banco di scuola, al
pattinaggio dell’Apollohal, con le amiche nelle strade intorno a Merwedeplein,
in terrazza, al parco. Attimi simbolici e istantanei, dove la faccia da
secondogenita sbarazzina e spensierata di Anne campeggia su tutto, sulla compostezza
della madre e sulla maturità della sorella, oppure interi set fotografici dove
Anne aveva modo di divertirsi assumendo pose e atteggiamenti che oggi
interpretiamo come estremamente attuali.
Nel
nascondiglio le foto terminano. Foto e diario non si sovrappongono e là dove si
spengono le immagini visibili, scompaiono il volto e il corpo di Anne,
svaniscono in un nulla che chiede a noi lettori di figurarceli e renderli di
nuovo concreti attraverso le parole. Il Diario lo permette e diviene la
prosecuzione delle fotografie: descrive attimi simbolici e brevi, istantanee
mentali, pensieri fugaci che balenano solo per un attimo nell’aria e vanno
fissati in fretta, prima che siano dimenticati.
Diario e foto
compongono un corpus unico nella storia della piccola dei Frank, un percorso
che va dall’immaginario all’immaginazione e che Anne percepisce e riafferma nel
suo stile e nelle rare scelte di libertà all’interno del nascondiglio: i muri
della sua stanza da letto, condivisa con Fritz Pfeffer, mostravano un’esposizione
di istantanee, perlopiù ritagliate da giornali e riviste di spettacolo. Volti
di star del cinema americano e olandese, che difficilmente guardano fisse
davanti a sé ma oltre: Deanna Durbin, Greta Garbo in Ninotchka (l’unico
film in cui l’attrice svedese sorride), Ginger Rogers, Norma Shearer, opere
d’arte, illustrazioni… Con forbici e colla, Anne ricrea un Olimpo fotografico
dove i frammenti infinitesimali di vite altrui si fissano al muro di colei che
racconta i frammenti della propria, con passione e frequenza assidua.
Insieme alle
fotografie, la scuola e i libri hanno evidentemente influenzato l’indole
letteraria di Anne. Studentessa in uno dei molti istituti Montessori che già
allora punteggiavano Amsterdam, il “Sesto” (oggi a lei intitolato), Anne cresce
in un ambiente culturale dove l’espressione, e l’espressione di sé, non rappresentano
aspetti marginali del metodo formativo ma anzi ne costituiscono il nucleo
principale. Il metodo Montessori, già allora così celebre e valorizzato
all’estero, prevede che l’educazione degli allievi passi attraverso l’interesse
autentico, la libertà di creazione, e su tutto una grande idea di fiducia nei
ragazzi e di indipendenza che dia gusto alle loro azioni. Anne cresce stimolata
dalla famiglia – suo padre è stato per lavoro in mezza Europa e a New York – e
rinfrancata da un’istituzione scolastica che libera Anne mentre Anne è ancora
in libertà. Dopo, è troppo tardi per liberarsi: l’impressione, da più di un
punto di vista e attraverso storie diverse, è che si possa vivere liberi nella
prigione della dittatura nazista solo se prima, nel tempo della formazione, si
è coltivata un’idea solida di libertà. Per Anne fu così.
“Giudico me stessa in un’inverosimile quantità di cose
e vedo sempre più quanto fossero vere le parole di papà: ‘ogni bambino deve
educarsi da solo’. I genitori possono solo dare consigli o buone indicazioni,
ma la formazione
definitiva del carattere di una persona è nelle sue stesse mani.
15 luglio 1944
Anne non scrive
il diario come reazione all’oppressione, ma perché ragazza abituata alla
libertà e all’ironia: fu più forte di lei, in qualche modo, come se gli anni
della libertà avessero segnato un destino culturale. Quel microcosmo scolastico
che l’aveva plasmata si era in fondo ricreato all’interno del nascondiglio. Anne,
Margot e Peter seguono corsi, completano compiti, tengono allenata la
conoscenza delle lingue, praticano piccoli lavori. Il padre stesso li segue
alternandosi tra la figura del maestro e quella del compagno di studi. La
clandestinità torna a essere scuola, là dove i benefattori diventano insegnanti
inconsapevoli che da fuori, da quella città occupata e dal mondo ben più vasto,
portano notizie, giornali e riviste, fotografie, aria buona, piccole speranze:
necessità primarie per Anne, così desiderosa di conoscere e sapere.
Le letture di
cui Anne è vorace fanno parte dello stesso desiderio. Il tempo del nascondiglio
era lungo e Anne impiegava pochissimi giorni per terminare ogni volume: nel
fine settimana ne arrivavano di nuovi, portati dai benefattori, e lei attendeva
quel momento con particolare impazienza. A più riprese si definisce “lettrice
di romanzetti”, perché così venivano giudicate le pagine da lei amate. Oggi
osserviamo con occhi diversi quelle parole: si trattava di romanzi di
formazione, storie giovanili a puntate, pieni di amori, amicizie, avventure,
disubbidienze, piccoli anticonformismi, ribellioni pomeridiane. Letture
superficiali e un po’ stereotipate, a volte, e non sempre scelte direttamente
da Anne (i benefattori recuperavano quello che offriva una delle biblioteche
vicine – ad Amsterdam se ne contavano 101), ma che le permisero di trovare una
propria strada originale, compiere passi in autonomia e confrontare il proprio
intimo con gli episodi verosimili dei libri e soprattutto con la libertà
assoluta dei loro protagonisti.
La formazione
stilistica di Anne sembra dunque provenire da una dimestichezza con
l’istantanea fotografica, dalla disciplina della libertà sperimentata nella
scuola montessoriana, dal confronto tra il pensiero e la lettura. Anne Frank,
costretta all’angolo dai nazisti, può guardare a se stessa senza richiudersi,
memore del proprio percorso, e tramutare in diario la propria formazione umana,
traducendo in parole la sua intimità coltivata dalle esperienze. Col Diario,
Anne rende giustizia del tempo tramutandolo in espressione, ossia compie il
primo passo di un percorso artistico.
Margini
Il tempo della
narrazione scorre diversamente dal tempo che conosciamo, e il bozzolo d’arte
contenuto nelle pagine del diario necessitò di un proprio tempo per divenire
farfalla.
“Anche se ti racconto molto di noi, non conosci
comunque che una piccola parte della nostra vita.
È il 28 marzo
1944, Anne osserva l’incompletezza del proprio diario con sollievo, si rende
conto che nemmeno l’amica di carta che l’ha accompagnata fin lì può comprendere
e racchiudere tutta l’esperienza del nascondiglio. Anne testimonia davanti a se
stessa che il tempo è passato e ha lasciato il segno. A una lettura attenta, il
tempo scandito e chiamato per nome da Anne viene continuamente disatteso ed
eluso, come scorresse su due differenti piani.
L’uno più
evidente e di superficie: il passare dei giorni e degli anni, la cadenza delle
feste comandate, dei compleanni, degli avvenimenti di cronaca raccontati nel
diario; un piano inclinato che porta inesorabilmente alla fine, agli occhi di
noi che sappiamo, e che conduce al desiderio di sopravvivenza, agli occhi di
Anne. È il tempo del racconto, degli episodi, dei dialoghi trascritti.
L’altro è
nascosto e in parte menzognero, un tempo dove Anne gioca a scavare in una
profondità che non conosce calendari, prova a rincorrere il proprio tempo in
una prospettiva originale, rendendolo longevo, continuamente giovane. Prova ne
sono i nomi fittizi dei protagonisti, scelti da Anne a tutela dei compagni di
sventura ma anche a trasfigurazione di quanto stava avvenendo; i tanti pensieri
scritti o datati nello stesso giorno (le tante pagine del 28 settembre 1942
sono un esempio illuminante), frutto evidente di riflessioni precedenti,
malumori e speranze accuditi nel cuore e finalmente fissati sulla carta, quasi
a volersene liberare perché troppo pesanti da portare. E prova ancor più forte
sono i cosiddetti “fogli sparsi”, che riavvolgono il tempo del nascondiglio su
se stesso e permettono ad Anne di ritornare sui propri giorni rivivendoli
daccapo, in un’operazione piena di letteratura ma anche di coraggio, poiché la
rivisitazione fa riaffiorare tutto: le angosce, le paure, anche i dolori.
Proprio tra i fogli ricopiati, il 14 agosto 1942 Anne scrive:
“Di mattina alle 9 e mezzo (noi stavamo ancora facendo
colazione) è arrivato Peter, il figlio dei v. Pels di nemmeno 16 anni, uno
spilungone piuttosto timido e noioso, non ci si aspetta molto dalla sua
compagnia.
Queste righe
nascono tra maggio e giugno del 1944, quasi due anni dopo la loro intitolazione
temporale. Anne riscrive un episodio del nascondiglio e lo fa rispettandone la
datazione che lei ricordava. Ma lo fa molto tempo dopo, e in quel tempo la
conoscenza con Peter si era fatta forte, energica d’amore ma anche deludente,
speranzosa e accesa di passione. Eppure, scrivendo, Anne ritorna sui propri
passi e finge di dimenticare per poter paradossalmente ricordare e riproporre a
se stessa le sensazioni avute nel suo primo incontro con Peter. Il tempo si
riavvolge con forza, qui, e costringe Anne a rinnovare i pensieri, permettendo
loro di rinascere.
Nella primavera
del 1944, con la decisione di riscrivere il proprio diario, Anne matura la
consapevolezza del tempo, percepisce il distacco di chi è solito scriverne e
inizia a osservare tutto con leggerezza e ispirazione. È la maturità che
giunge.
“Ci siamo raccontati così tante cose, ma così tante,
che non posso ripeterle tutte, ma è stato stupendo, la più bella serata che
abbia mai passato nella Casa sul retro.
19 marzo 1944
La distanza
temporale tra il concepimento di un’idea e la nascita di un pensiero scritto
permea le pagine, così che i quaderni, i fogli sparsi, i blocchi di appunti,
l’intera materia scritta da Anne Frank appaiono oggi non solo come il diario
fisico dei giorni di chi lo scrisse, del corpo di una ragazza e di quanto
avvenne intorno a lei, bensì soprattutto del diario spirituale di
un’adolescente, nell’ordine mentale che lei stessa aveva stabilito.
In quel margine
tra il tempo che scorre e il tempo della scrittura nascono le storie dei libri.
Così per Anne, che ragionando d’amore percepisce la lontananza creata in
profondità tra pensiero e concretezza, tra la parte più razionale e quella più
illuminata dalla fantasia, e questa distanza la atterrisce.
“Ho paura di me stessa, ho paura di concedermi troppo
presto al mio desiderio, come potrà andar bene con gli altri ragazzi, poi? Oh,
è così difficile, c’è sempre il cuore con la ragione, ciascuno deve parlare a
suo tempo ma sono sicura, io, di aver scelto bene il tempo?
28 aprile 1944
Nell’oscurità
forzata, Anne è costretta a illuminarsi, a trovare in se stessa le forze. La
sua scrittura nasce in questo scontro e ne prosegue gli intenti, abita Anne e
ne diviene il domicilio più sicuro, nel buio, nel silenzio. È un domicilio
temporaneo, che coinvolge Anne per un tempo breve in ogni giornata. Quando Anne
descrive i propri impegni all’interno del nascondiglio, quasi ci stupiamo:
“Sbucciare le patate: dalle 9 e mezzo alle 10 o
10 e mezzo. Lavoro sui libri; con interruzioni per parlare, scrivere il diario,
chiacchierare e non far niente (a volte anche caffè ± alle 11 meno un quarto),
dalle 10 e mezzo alle 12.
20 marzo 1944
Eppure il tempo
pur fugace della scrittura riesce a magnetizzare la totalità del tempo. È un
lavoro forte ma tutt’altro che regolare, pieno di ripensamenti e ritorni,
andirivieni di stile:
“Negli ultimi tempi non ho nessuna voglia di
trascrivere quello che succede qui. Mi stanno molto più a cuore i miei
interessi personali.
10 marzo 1944
L’ebraismo
Nata ebrea,
fuggiasca perché ebrea, ricercata perché ebrea, clandestina perché ebrea,
arrestata, deportata e uccisa perché ebrea. Eppure Anne Frank vive un ebraismo
alquanto laico, caratterizzato da pochissimi segni di appartenenza e da
un’ampia libertà d’azione. Un ebraismo mitteleuropeo distante dall’ortodossia,
che diviene appartenenza a una comunità vasta ed eterogenea. Quel che rimane
delle tradizioni dipende quasi esclusivamente dalla madre, che ancora mantiene
in seno alla famiglia Frank alcune usanze, i libri di preghiere, piccole e
importanti ritualità domestiche. Ma il cattivo rapporto con la madre non aiuta
Anne nemmeno a confrontarsi serenamente con l’ebraismo, quasi essa intaccasse
il legame matriarcale con il passato. L’ebraismo di Anne Frank è preghiera con
il padre, ma soprattutto solitudine. Alla sera, nei gesti quotidiani che
precedono il sonno, Anne non dimentica la santificazione.
“Pensare, sognare, pregare e rilassarsi: 10 meno un
quarto – 10 e un quarto.
20 marzo 1944
Ma è solo un
accenno. Anne nomina e scrive il nome del Creatore, non rispetta le tradizioni
alimentari, arrivando a raccontare del sanguinaccio (bloedworst)
preparato e consumato in giorno di Shabbat, contravvenendo al riposo e al
divieto di cibarsi di sangue (Poiché la vita della carne è nel sangue –
LV 17, 11), contraddice l’ortodossia.
Solo una figura
familiare la porta a interrogarsi sulle proprie origini ebraiche, permettendo
all’affettività di divenire un tramite tra il distacco del presente e la
religiosità del passato: la nonna materna. L’affetto per la nonna spinge Anne a
rispettarne le volontà, ad aggiungere la candela per lei tra le candele di
Hanukkah nel primo anno di nascondimento, e a percepire nel rapporto con
l’anziana un legame spirituale che può sorreggerla e fortificarla.
“Quando stasera (venerdì sera 8 meno 5) ho guardato la
candela, di nuovo mi sono sentita calma e contenta.
Nella candela c’è la nonna ed è la nonna a proteggermi
e difendermi e rendermi ancora felice.
3 marzo 1944
E, pochi giorni
dopo:
“So di avere Dio, Dio e la nonna e ancora tanto altro
ed è questo che mi tiene in piedi. Senza quella voce che promette sempre
conforto e bene, avrei già perso la speranza molto tempo fa, senza Dio sarei
già crollata da tempo.
12 marzo 1944
12 marzo 1944
La parola,
ancora una volta, sorregge Anne e non la fa impazzire. È la parola a salvarla.
Quella sua parola pronunciata con difficoltà, scritta con stile fragile e a
tratti affrettato, o quella del padre o della nonna, quella parola attesa da
Peter, o la parola letta sui romanzi, o ancora la parola ascoltata al
radiogiornale, che invita a lasciar traccia delle proprie storie negli anni di
guerra: le parole danno senso alla clandestinità, danno sostanza alla salvezza,
le permettono di far discendere la speranza da un’interpretazione spirituale
degli eventi.
“Chi ci ha inflitto tutto questo? Chi ha reso noi
ebrei un’eccezione in mezzo a tutti i popoli? Chi ci ha fatti soffrire così
tanto finora? È stato Dio a farci così, ma sarà anche Dio a risollevarci. Se
sopporteremo tutta questa sofferenza e alla fine rimarranno ancora degli ebrei,
allora gli ebrei, da condannati che erano, diverranno esempi. Chissà, forse un
giorno sarà la nostra fede a insegnare il bene al mondo e così a tutti i popoli
e per questo, soltanto per questo, dobbiamo anche soffrire. Noi non potremo mai
diventare solo olandesi o solo inglesi o di qualunque altra nazione, noi
rimarremo sempre e comunque anche ebrei; dovremo restare ebrei, ma vogliamo
anche restarlo.
È il 9 aprile
1944, è l’ultima primavera che Anne Frank vive, senza saperlo. La sua parola
diviene velo, e arriva a rappresentare meglio di qualsiasi altro aspetto
l’autentica identità di Anne, ebrea che vive nel margine tra pensiero e
creazione, tra storia dimenticata e storie da ricordare a ogni costo. La parola
velata è l’ebraismo del Novecento, chiuso in una casa sul retro, in una stanza,
in una ragazza di quasi quindici anni.
Una di sei milioni
“Visto che non hai mai vissuto una guerra, Kitty, e
nonostante tutte le mie lettere sai ancora troppo poco di cosa sia nascondersi,
per divertirti ti racconterò qual è il primo desiderio di noi otto quando un
giorno torneremo fuori. Margot e il Signor v. Pels desiderano più di ogni altra
cosa un bagno caldo per intero e vogliono rimanerci più di mezz’ora. La signora
v.P. vuole andare a mangiarsi delle torte, Pf. non conosce altro che la sua
Charlotte, la mamma la sua tazza di caffè, Papà va da Voskuyl, Peter in centro
e al cinema e io per la meraviglia non saprei proprio da dove incominciare.
3 aprile 1944
Anne Frank
muore di tifo nel febbraio 1945, nel campo di concentramento di Bergen-Belsen,
in Germania. Viene sepolta in una fossa comune e oggi non esiste un luogo
preciso dove poterla pensare o pregare. Al posto delle molte baracche del
lager, messo a fuoco dai liberatori nel tentativo di debellare l’epidemia
mortale, c’è un bellissimo prato circondato da una meravigliosa foresta. La
vita di Anne si differenzia come uno scarto con la morte: tanto la prima è
originale, quanto la seconda, nello sterminio programmato nazista, diviene
uguale a quella di decine, centinaia di migliaia di altre. Il destino di quasi
sei milioni di ebrei europei è condiviso da una in più, venuta dalla Germania,
vissuta in Olanda, passata per Auschwitz. La sua storia unica si inserisce in
una miriade di storie uniche, che si somigliano, si richiamano, ci
interpellano. Felicità e contentezza, da Anne così approfondite nella sua
scrittura e così poco vissute, chiedono a noi lettori di confrontarci con il
senso di una morte vuota e priva di racconti, se non di sparute e fragili
testimonianze, vuota come il prato a Bergen-Belsen, oggi senza baracche,
camini, segni esteriori dei quali sono ricchi, a volte sfacciatamente, gli
altri lager.
“Sii gentile e coraggiosa”, scrisse Anne in francese sul risvolto dell’ultimo
quaderno. Il Diario è la storia di una ragazza, in fondo, chiusa per
salvarsi in una scatolina dalle pareti troppo sottili, che conduce fino a noi
le sue parole, che chiede a noi di ritrovare tra le righe e tra le pagine i
messaggi che ha seminato con cura.
“e meraviglioso sapere che qualcuno aspetta me.
17 aprile 1944
Una nuova
edizione del Diario risponde in fondo a questa richiesta: attendere
ancora, a modo nostro, Anne Frank. Con il suo carico di pensieri, mesi di
giorni e notti di lavoro, confronti, ripensamenti, parole che non ti
abbandonano per ore intere e che riappaiono all’alba seguente come
trasfigurate, riportare le parole del diario alla loro lucentezza iniziale
rappresenta il prolungamento dell’esistenza di una storia. Significa, forse,
pronunciare di nuovo quel finché scritto da Anne. Da lettori, siamo noi
la casa sul retro. Finché leggiamo abbiamo la sensazione di poterla proteggere
ancora, posticipare l’arresto di Anne e la sua partenza, accudirla.
Con la
consapevolezza che quel finché è stato solo un sogno, che il distacco
non si può evitare. Con la certezza di non poter entrare, mai, nell’ultimo
pensiero e comprendere fino in fondo la fantasiosa volontà di quella ragazza
che si chiamava Annelies Marie Frank. E ricordarsi ad ogni riga che non la
osserviamo scrivere guardandola in faccia, come si guardano gli scrittori; ma
da qualche passo indietro, lei alla sua scrivania di penne, matite e fogli
disordinati, fotografie appese, frasi appuntate. Di spalle, ecco. Come si
guardano i figli.
Amsterdam,
autunno 2015
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