da: la Repubblica
“La
democrazia è lotta per la democrazia e non è la classe dei privilegiati quella
che può condurla. Riflessioni che hanno a che vedere con i contenuti di questa
riforma? Sì, e molto da vicino"
L’OLIGARCHIA è la sola forma di democrazia,
ha sostenuto Eugenio Scalfari nei suoi due ultimi editoriali su questo
giornale. Ha precisato che le democrazie, di fatto, sono sempre guidate da
pochi e quindi altro non sono che oligarchie. Non ci sarebbero alternative: la
democrazia diretta può valere solo per questioni circoscritte in momenti
particolari, ma per governare è totalmente inadatta. O meglio: un’alternativa
ci sarebbe, ed è la dittatura. Quindi — questa la conclusione che traggo io,
credo non arbitrariamente, dalle proposizioni che precedono — la questione non
è democrazia o oligarchia, ma oligarchia o dittatura. Poiché, però, la
dittatura è anch’essa un’oligarchia, anzi ne è evidentemente la forma estrema,
si dovrebbe concludere che la differenza rispetto alla democrazia non è di
sostanza.
Tutti i governi sono sempre e solo
oligarchie più o meno ristrette e inamovibili; cambia solo la forma,
democratica o dittatoriale. Nell’ultima frase del secondo editoriale,
Scalfari
m’invita cortesemente a riflettere sulle sue tesi, cosa da farsi comunque
perché la questione posta è interessante e sommamente importante. Se fosse come
detto sopra, dovremmo concludere che l’articolo 1 della Costituzione (“L’Italia
è una repubblica democratica”; “la sovranità appartiene al popolo”) è frutto di
un abbaglio, che i Costituenti non sapevano quel che volevano, che hanno
scritto una cosa per un’altra. Ed ecco le riflessioni.
Se avessimo a che fare con una questione
solo numerica, Scalfari avrebbe ragione. Se distinguiamo le forme di governo a
seconda del numero dei governanti (tanti, pochi, uno: democrazia, oligarchia,
monarchia) è chiaro che, in fatto, la prima e la terza sono solo ipotesi
astratte. Troviamo sempre e solo oligarchie del più vario tipo, più o meno
ampie, strutturate, gerarchizzate e centralizzate, talora in conflitto tra
loro, ma sempre e solo oligarchie. Non c’è bisogno di chissà quali citazioni o
ragionamenti. Basta la storia a mostrare che la democrazia come pieno
autogoverno dei popoli non è mai esistita se non in alcuni suoi “momenti di
gloria”, ad esempio l’inizio degli eventi rivoluzionari della Francia di fine
‘700, finiti nella dittatura del terrore, o i due mesi della Comune parigina
nel 1871, finita in un bagno di sangue. Dappertutto vediamo all’opera quella
che è stata definita la “legge ferrea dell’oligarchia”: i grandi numeri della
democrazia, una volta conquistata l’uguaglianza, se non vengono spenti
brutalmente, evolvono rapidamente verso i piccoli numeri delle cerchie
ristrette del potere, cioè verso gruppi dirigenti specializzati, burocratizzati
e separati. Ogni governo realmente democratico non è che una fugace meteora. In
quanto autogoverno dei molti, fatalmente si spegne molto presto.
Tuttavia, la questione non è solo
quantitativa. Anzi, non riguarda principalmente il numero, ma il chi e il come
governa. Gli Antichi, con la brutale chiarezza che noi, nei nostri sofisticati
discorsi, abbiamo perduto, dicevano semplicemente che l’oligarchia è un regime
dei ricchi, contrapposto alla democrazia, il regime dei poveri: i ricchi, cioè
i privilegiati, i potenti, coloro che stanno al vertice della scala sociale
contro il popolo minuto.
In questa visione, i numeri perdono
d’importanza: è solo una circostanza normale, ma non essenziale, che “la gente”
sia più numerosa dei “signori”, ma i concetti non cambierebbero (dice
Aristotele) se accadesse il contrario, se cioè i ricchi fossero più numerosi
dei poveri. Si può parlare di oligarchia in modo neutro: governo dei pochi. Ma,
per lo più, fin dall’antichità, alla parola è collegato un giudizio negativo:
gli oligarchi non solo sono pochi, ma sono anche coloro che usano il potere che
hanno acquisito per i propri fini egoistici, dimenticandosi dei molti.
L’oligarchia è quindi una forma di governo da sempre considerata cattiva; così
cattiva che deve celarsi agli occhi dei più e nascondersi nel segreto. Questa è
una sua caratteristica tipica: la dissimulazione. Anzi, questa esigenza è
massima per le oligarchie che proliferano a partire dalla democrazia. Gli oligarchi
devono occultare le proprie azioni e gli interessi particolari che li muovono.
Non solo. Devono esibire una realtà diversa, fittizia, artefatta, costruita con
discorsi propagandistici, blandizie, regalie e spettacoli. Devono promuovere
quelle politiche che, oggi, chiamiamo populiste. Occorre convincere i molti che
i pochi non operano alle loro spalle, ma per il loro bene. Così, l’oligarchia è
il regime della menzogna, della simulazione. Se è così, se cioè non ne facciamo
solo una questione di numeri ma anche di attributi dei governanti e di opacità
nell’esercizio del potere, l’oligarchia, anche secondo il sentire comune, non
solo è diversa dalla democrazia, ma le è radicalmente nemica. Aveva, dunque,
ragione Norberto Bobbio quando denunciava tra le contraddizioni della
democrazia il “persistere delle oligarchie”.
Se ci guardiamo attorno, potremmo dire: non
solo persistere, ma rafforzarsi, estendersi “globalizzandosi” e velarsi in reti
di relazioni d’interesse politico-finanziario, non prive di connessioni
malavitose protette dal segreto, sempre più complicate e sempre meno
decifrabili. Se, per un momento, potessimo sollevare il velo e guardare la nuda
realtà, quale spettacolo ci toccherebbe di vedere?
Annodiamo i fili: abbiamo visto che la
democrazia dei grandi numeri genera inevitabilmente oligarchie e che le
oligarchie sono nemiche della democrazia. Dovremmo dire allora,
realisticamente, che la democrazia è il regime dell’ipocrisia e del mimetismo,
un regime che produce e nutre il suo nemico: il condannato che collabora
all’esecuzione della sua condanna. Poveri e ingenui i democratici che in buona
fede credono nelle idee che professano!
C’è del vero in questa visione disincantata
della democrazia come regime della disponibilità nei confronti di chi vuole
approfittarne per i propri scopi. La storia insegna. Ma non ci si deve fermare
qui. Una legge generale dei discorsi politici è questa: il significato di tutte
le loro parole (libertà, giustizia, uguaglianza, ecc.) è ambiguo e duplice,
dipende dal punto di vista. Per coloro che stanno in cima alla piramide
sociale, le parole della politica significano legittimazione
dell’establishment; per coloro che stanno in fondo, significa il contrario,
cioè possibilità di controllo, contestazione e partecipazione. Anche per
“democrazia” è così. Dal punto di vista degli esclusi dal governo, la
democrazia non è una meta raggiunta, un assetto politico consolidato, una
situazione statica. La democrazia è conflitto. Quando il conflitto cessa di
esistere, quello è il momento delle oligarchie. In sintesi, la democrazia è
lotta per la democrazia e non sono certo coloro che stanno nella cerchia dei
privilegiati quelli che la conducono. Essi, anzi, sono gli antagonisti di
quanti della democrazia hanno bisogno, cioè gli antagonisti degli esclusi che
reclamano il diritto di essere ammessi a partecipare alle decisioni politiche,
il diritto di contare almeno qualcosa.
Le costituzioni democratiche sono quelle
aperte a questo genere di conflitto, quelle che lo prevedono come humus della
vita civile e lo regolano, riconoscendo diritti e apprestando procedimenti
utili per indirizzarlo verso esiti costruttivi e per evitare quelli
distruttivi. In questo senso deve interpretarsi la democrazia dell’articolo 1
della Costituzione, in connessione con molti altri, a incominciare
dall’articolo 3, là dove parla di riforme finalizzate alla libertà,
all’uguaglianza e alla giustizia sociale.
Queste riflessioni, a commento delle
convinzioni manifestate da Eugenio Scalfari, sono state occasionate da una
discussione sulla riforma costituzionale che, probabilmente, sarà presto
sottoposta a referendum popolare. Hanno a che vedere con i contenuti di questa
riforma? Hanno a che vedere, e molto da vicino.
Qui sotto, un estratto dell'editoriale di
Eugenio Scalfari, a cui risponde Gustavo Zagrebelsky
In
democrazia sono pochi al volante e molti i passeggeri
di Eugenio
Scalfari
Sono stato molto contento come vecchio
fondatore di questo giornale che il nostro direttore Mario Calabresi abbia
deciso di aprire un dibattito sulle varie tesi
che riguardano il referendum costituzionale che sarà votato dai cittadini il 4
dicembre prossimo e la vigente legge elettorale che molti (e io tra questi)
considerano malfatta o addirittura pessima.
Il dibattito sulle nostre pagine è avvenuto
anche perché Repubblica ha ricevuto una quantità di lettere e di messaggi via
web su quei medesimi argomenti, esprimendo variamente il loro atteggiamento sul
voto Sì o il voto No o l’astensione attiva (come l’ha definita Fabrizio Barca
in un suo memorandum in circolazione nelle sezioni del
partito democratico). Sono infine molto
grato a Gustavo Zagrebelsky che ha dato il via
a questa discussione nel suo incontro televisivo di qualche giorno fa con
Matteo Renzi.
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