da: Avvenire – di Leonardo
Becchetti
II lavoro
sempre più voucherìzzato, i call center
in crisi perché i precari non lo sono abbastanza, i fattorini di Foodora che
portano la pizza a domicilio a salali stracciati e capiscono che l'unica
disperata forma di protesta che può far presa è l'appello ai consumatori a non
comprare i loro prodotti. Che cosa sta succedendo?
Guardatevi
intorno e vedrete nei paesaggi delle nostre città e delle
nostre periferie il trionfo
dell'economia e contemporaneamente il suo fallimento
nel regalarci felicità e pienezza di senso di vita. Fallimento figlio del suo grave peccato originale. Distese senza
fine di ipermercati, centri commerciali
e negozi traboccanti di prodotti di ogni genere, colmi di tutte le varietà
possibili vendute a prezzi stracciati, al massimo del sottocosto possibile. Il
mondo è diventato esattamente ciò che quel gruppo di filosofi morali che
inventò l'economia moderna più di due secoli fa voleva che diventasse: il trionfo del consumatore.
L'obiettivo era nobilissimo e tutt'altro
che meschino: rendere l'umanità felice. Il risultato assolutamente di successo
se valutato in termini di coerenza con le premesse. Peccato però che la
funzione di felicità utilizzata (l'ipotesi su cosa rendesse l'uomo felice)
fosse sbagliata. I fondatori dell'economia partirono
infatti da un'ipotesi
allora non verificabile empiricamente e rivelatasi poi del tutto fallace: una
visione di uomo (Yhomoeconomicus] la cui funzione di utilità/felicità indicava
come principale, se non unica, fonte di
soddisfazione l'aumento dei beni acquistabili date le proprie possibilità
di spesa: in parole povere la felicità vuoi dire rendere sempre più pieno il carrello del supermercato (il «paniere
dei beni» usando il linguaggio più antico con cui si insegna l'economia
all'università).
Sarebbe stata la concorrenza di mercato lo
strumento decisivo per condurci al paradiso date queste premesse e questa
funzione, ovvero quella mano invisibile capace di trasformare l'avidità dei
singoli produttori in una corsa al ribasso dei prezzi che avrebbe generato il
massimo surplus dei consumatori. Una somma di avidità trasformata
automaticamente in bene di tutti dalla mano invisibile del mercato. È andata esattamente così. Peccato -
come si diceva- che qualche tempo dopo gli studi empirici sulla felicità (e
forse sarebbe bastato il buon senso comune smarrito) hanno cominciato a
smentire clamorosamente le premesse ipotizzate dai fondatori dell'economia.
Questi studi ci dicono quasi unanimemente che la felicità degli esseri umani
non dipende affatto dalla quantità di beni consumati quanto piuttosto dalla
nostra generatività, dalla qualità della nostra vita di relazioni, dalla
dignità e creatività del nostro lavoro, dalla bellezza dell'ambiente in cui
viviamo dalla nostra salute.
Il paradosso in cui viviamo è che gli
effetti indiretti della prodigiosa macchina messa in moto per produrre il
massimo numero e varietà di beni ai minori prezzi possibili, figli di una
teoria che ha messo fuori dai radar tutto quello che è fondamentale per vivere
(relazioni, bellezza e qualità dell'ambiente, dignità del lavoro, salute), ha
avuto purtroppo molto spesso l'effetto di produrre effetti indiretti negativi
su tutte queste altre dimensioni ignorate, ma in realtà fondamentali per la
nostra felicità. Abbiamo imparato tristemente a nostre spese che dietro il sottocosto (il prezzo basso
non-importa-come) c'è molto spesso lo
sfruttamento del lavoro, i rischi per la salute, la distruzione della
sostenibilità ambientale, la messa in secondo piano della vita di
relazioni. Il peccato originale degli economisti ci ha portato a vivere in lina
società dove siamo quasi onnipotenti, viziati e compulsivi come consumatori, ma
sempre più fragili e a rischio come lavoratori, crescentemente poveri di
relazioni e alla disperata ricerca di soluzioni per tutelare qualità ambientale
e salute.
Come si può intervenire per correggere
il bug, l'errore iniziale di programmazione di questa macchina? In estrema
sintesi mettendoci gli occhiali giusti per misurare il benessere e prendendo il
toro per le corna. Utilizzando cioè il massimo potere che il sistema ci da,
quello di scegliere cosa consumare e
risparmiare, "votando col portafoglio" - come non mi stanco di
ripetere - per riequilibrare il tutto, ridando valore e dignità al valore delle
dimensioni invisibili, ma fondamentali, per il senso del no stro vivere.
Dobbiamo pertanto pretendere prima di essere informati nel modo migliore
possibile, per scovare poi il valore
ambientale, relazionale, di dignità di lavoro e di salute incorporato nei
prodotti e premiare con le nostre scelte quelli all'avanguardia in queste
dimensioni. È il mercato il dominus e il
mondo lo cambiamo solo cambiando il mercato. Accorgendoci che in fondo non
è un'entità astratta e lontana perché il mercato siamo noi quando consumiamo e
risparmiamo.
Gli ingredienti
di un futuro migliore già esistono e stanno crescendo: indicatori di
benessere equosostenibile, finanza e banche etiche, commercio solidale, imprese
sodali e cooperative vecchie e nuove, benefit corporation, gratuità e dono che
escono dalle dimensione squisitamente religiosa e diventano sempre più elementi
centrali e fondamentali della vita sociale ed economica. Vanno accompagnati da
una battaglia culturale sui media e sui social per sconfiggere rancore e
"passioni tristi" ispirate da insicurezza sociale e povertà
spirituale per rendere tutti consapevoli del potenziale enorme di cambiamento
che è nelle nostre mani. La sfida è già iniziata. E tempo di prenderla sul
serio.
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