Condivido e
sottoscrivo: “la riforma “Dini” del 1995, ottima nell’approccio - con il via
libera a una rivoluzione culturale quale l’introduzione del metodo di calcolo
contributivo che portava dentro di sé la logica della flessibilità in uscita e
che oggi avrebbe consentito di affrontare questo tema da una prospettiva ben
diversa – ma pessima nella sua
realizzazione, visto che l’effettivo passaggio al nuovo sistema di calcolo,
che solo ora la Monti-Fornero ha esteso a tutti, era stato spostato in avanti di almeno 35-40 anni o forse più. Il prezzo
ingiusto di una battaglia politico-sindacale che non si è curata di
tutelare gli interessi dei più giovani, né quelli di allora né quelli di oggi”.
da: Il
Sole 24 Ore - di Salvatore
Padula
Tra pochi giorni il
“pacchetto previdenza” della legge di Bilancio vedrà finalmente la luce. Novità
molto attese – dall’introduzione dell’Ape, l’anticipo pensionistico, al
sostegno alle pensioni medio-basse – che sono state al centro di un lungo
confronto estivo tra il governo e i sindacati, sfociato nella firma di un
protocollo d’intesa che indica le linee dell’intervento.
Accesso alla
pensione e adeguatezza della pensione sono, probabilmente, i due punti estremi
di una serie di criticità legate all’assetto del nostro sistema previdenziale.
Un sistema che resta a tratti legato a logiche di tipo assistenziale
(come nel caso dell’aumento delle “quattordicesime”) che andrebbero più opportunamente affrontate nell’ambito delle politiche di welfare o fiscali e non in ambito pensionistico in senso stretto.
(come nel caso dell’aumento delle “quattordicesime”) che andrebbero più opportunamente affrontate nell’ambito delle politiche di welfare o fiscali e non in ambito pensionistico in senso stretto.
Al di là di ciò, le misure in arrivo serviranno a fornire alcune necessarie soluzioni su altre criticità del sistema. Parliamo di lavoratori precoci, di lavori usuranti, di ricongiunzioni e cumulo gratuito dei periodi contributivi: tutti ambiti dove sembrano esserci le condizioni per rimettere ordine tra meccanismi e regole che con il passare degli anni hanno perso parte delle loro finalità originarie (garantire livelli più solidi di tutela per determinate categorie di lavoratori) e che in alcuni casi sono addirittura diventati un ostacolo al pensionamento, come accade a causa dei costi spropositati ai quali sono esposte alcune tipologie di ricongiunzione.
Come si vede, quello
dell’accesso alla pensione resta tra i temi più sensibili. Probabilmente, poche
leggi sono riuscite a suscitare lo stesso disappunto che ancora suscita la
Monti-Fornero sulla riforma previdenziale, in vigore dal 2012. La legge più
odiata dagli italiani, si potrebbe dire.
Un’avversione con
molte ragioni: l’innalzamento dei requisiti anagrafici e contributivi per
l’accesso alla pensione, ancor più repentino per le donne; l’abolizione
istantanea delle pensioni di anzianità; la mancanza quasi totale di
flessibilità per l’uscita anticipata dal lavoro. Tutti aspetti che
rappresentano problemi e preoccupazioni reali per ampie platee di lavoratori.
Ciò che però molti
hanno scordato è che quella riforma (che riprendeva alcuni aspetti di una
proposta del Cerp, il centro di ricerca su pensioni e welfare fondato e
coordinato dall’allora ministro Elsa Fornero, il cui obiettivo era l’introduzione
di elementi di equità previdenziale tra le generazioni e conteneva, tra le
altre cose, un sistema di flessibilità in uscita di assoluta avanguardia, poi
accantonato per esigenze finanziarie) rispondeva alla necessità di recuperare
rapidamente le risorse di cui il Paese aveva in quel momento urgente bisogno.
La legge Monti-Fornero “portava” in dote oltre 88 miliardi di euro di risparmi sulla spesa pubblica nel periodo 2012-2021. Quel conto qualcuno ancora lo sta pagando, anche se una parte dei risparmi attesi è stata poi utilizzata per rimediare al principale difetto della riforma, ovvero gli ”scaloni” sui requisiti pensionistici che l’entrata in vigore senza gradualità delle nuove regole aveva determinato. In questi giorni il governo è impegnato nella definizione di una nuova “salvaguardia” - siamo all’ottava - concessa ai lavoratori che per effetto della Monti-Fornero si sono trovati senza lavoro e senza pensione oppure con il diritto alla pensione che si allontanava in modo preoccupante. Il risultato è che il 13% dei risparmi della legge Monti-Fornero è stato dirottato a favore degli esodati, molti dei quali tutelati in modo assolutamente necessario e opportuno, ma altri – lo segnala un rapporto dell’Inps - non sempre in effettiva condizione di necessità.
Ora, con la legge di bilancio arriverà uno strumento che cerca di introdurre alcuni elementi di flessibilità. Ma basta guardare ai numeri per capire che la partita resta complessa: per gli esodati sono stati messi sul piatto 11,4 miliardi di euro (spesa programmata fino al 2023 per le sette salvaguardie finora approvate, fonte Inps); per l’annunciata Ape, pur senza disporre ancora delle quantificazioni ufficiali sulla spesa prevista, ci sarà molto meno.
Le buone intenzioni vanno sempre coltivate e assecondate, ma di certo nessuno può illudersi che l’Ape rappresenti davvero il superamento delle rigidità della riforma del 2012. Servirebbe ben altro. Anzi, a dire il vero, sarebbe servito ben altro perché il nodo della nostra previdenza sta tutto nell’eredità di una riforma, la “Dini” del 1995, ottima nell’approccio - con il via libera a una rivoluzione culturale quale l’introduzione del metodo di calcolo contributivo che portava dentro di sé la logica della flessibilità in uscita e che oggi avrebbe consentito di affrontare questo tema da una prospettiva ben diversa – ma pessima nella sua realizzazione, visto che l’effettivo passaggio al nuovo sistema di calcolo, che solo ora la Monti-Fornero ha esteso a tutti, era stato spostato in avanti di almeno 35-40 anni o forse più. Il prezzo ingiusto di una battaglia politico-sindacale che non si è curata di tutelare gli interessi dei più giovani, né quelli di allora né quelli di oggi.
I giovani, si
diceva. Una delle accuse più ricorrenti alla legge Monti-Fornero è di aver
“ingessato” il mercato del lavoro impedendo o rallentando quelle dinamiche che
avrebbero offerto più chance di occupazione ai giovani. Su questo tema,
sappiamo, esistono studi e valutazioni non sempre concordanti. Ma è un fatto,
come rileva ancora l’Inps nel suo ultimo rapporto annuale, che dal 2010 gli
under 30 occupati siano diminuiti di 800mila unità e gli over 55 siano
aumentati di 800mila unità (il dato rilevante, naturalmente, non è la
coincidenza tra le due quantità).
Ma sull’andamento
del mercato del lavoro hanno avuto un peso determinante la crisi mondiale, la
grande depressione, la crisi del debito. La legge Monti-Fornero probabilmente
non ha aiutato il ricambio generazionale, tuttavia è forse eccessivo gettarle
addosso responsabilità che dipendono da molte altre variabili. Il ricambio
generazionale fa i conti anche con le nuove competenze richieste sul mercato
del lavoro, con le nuove dinamiche produttive, con le nuove esigenze
dell’innovazione.
Per questo, ora
sarebbe un errore aspettarsi dall’Ape una spinta alla staffetta tra vecchi e
giovani occupati. Più corretto sarebbe attendersi dall’anticipo pensionistico
un’efficacia limitata alla sfera, per così dire, dei “bisogni personali”.
E allora: l’Ape
funzionerà? Per prima cosa, sarebbe più corretto parlare di tre strumenti
diversi. E forse chiamarli anche in modo diverso, per evitare confusione. È
impossibile, anche concettualmente, mettere sullo stesso piano quella che è
ormai definita da tutti l’Ape sociale - dove cioè, per categorie e situazioni
determinate, lo Stato si farà interamente carico dell’anticipo pensionistico
(che, quindi, diventa una sorta di “pre-pensionamento”) e quella definita Ape
volontaria, dove il lavoratore deciderà se accedere a un prestito bancario
assicurato, le cui condizioni sono mediate dallo Stato (ma Bruxelles non avrà
nulla da obiettare?) e che dovrà poi restituire in 20 anni a un costo che
potrebbe superare il 20% della pensione, nel caso di uscita con 3 anni e mezzo
di anticipo. Nel mezzo, la terza tipologia dove accordi tra lavoratore e
azienda (anche grazie ad intese collettive) consentiranno di ripartire i costi
della restituzione del prestito, ma sulla cui efficacia è ancora presto per
dare un giudizio.
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