di Luigi Ciotti
Come può procedere un Paese quando a
prevalere - a ogni livello e ambito - sono le divisioni, le rendite di potere,
i calcoli e i piccoli cabotaggi? Quando la politica oscilla tra sdegnosi
rifiuti e compromessi al ribasso? Quando la
«crescita» che tutti auspicano è impedita da quella che troppi permettono: la
crescita delle ingiustizie e delle diseguaglianze, della povertà e della
disoccupazione?
Occorre un nuovo umanesimo che ci faccia
superare gli egoismi, le rivalità, le contese. Che ci liberi dalla malattia del
potere che tutto corrompe se non viene assunto con coscienza e responsabilità,
se non viene vissuto come servizio.
Occorre un nuovo umanesimo che ci faccia
guardare al di là di noi stessi, della sfera privata, che ci spinga
all’interesse per il bene pubblico, per la vita comune e condivisa, che ci
faccia osare orizzonti più grandi di quelli dell’io.
I mali di cui soffriamo sono sotto gli
occhi di tutti, ma sono occhi spesso distratti, rassegnati o persino complici.
L’esclusione dei giovani dal mondo del lavoro è il grande scandalo di questo
tempo. Un segno di egoismo ma anche di ottusità, perché un Paese che non punta sui
giovani è un Paese che sbarra la strada al proprio futuro.
Spesso si discute di certi comportamenti
aggressivi e violenti, ci si indigna di fronte a quei giovani che mancano di rispetto agli insegnanti, che si prendono
gioco di loro, che arrivano a insultarli e persino a intimidirli.
E’ giusto censurare - sono comportamenti
intollerabili - ma è necessario anche riflettere sulle nostre responsabilità.
Che razza di mondo abbiamo consegnato a
questi ragazzi? Cosa può diventare un giovane dentro a un sistema dove ciò che
conta è il suo essere consumatore, non persona, non cittadino? Un sistema che
ti chiede di metterti in mostra, di diventare «famoso», di «farti conoscere»,
ma non ti dà i mezzi per conoscere te stesso, per scoprire chi sei attraverso
le relazioni, la conoscenza, il talento, le passioni?
Se guardiamo all’uso e abuso di droghe -
tra cui una, pericolosissima, che troppo sbrigativamente molti avevano dato per
superata: l’eroina - bisogna pensare ai drammi interiori di tanti ragazzi, alla
loro angoscia di non essere accettati e riconosciuti dalla «società dell’io»,
di non rivelarsi all’altezza di obiettivi ossessivamente proposti come
prioritari: la bella apparenza, la ricchezza, il successo. Le droghe compensano
provvisoriamente vuoti e frustrazioni, danno l’illusione di poter riuscire là
dove si è fallito.
[…] Ma anche dobbiamo guardare i tanti
giovani che - anche grazie a realtà che hanno saputo accoglierli, accompagnarli
e valorizzarli - si stanno impegnando a costruire una società più giusta e più
umana. Un giovane è per sua natura aperto
alla vita, affamato di conoscenza, animato da domande profonde e inquietudine
positive. Un giovane non si accontenta di sapere che una cosa esiste, vuole
anche sapere perché esiste, qual è la sua essenza e quale il suo scopo. Sente
il bisogno di interlocutori che prendano in seria considerazione le sue
domande, il suo bisogno di interrogare e interrogarsi. Adulti che sappiano
essere presenti senza essere soffocanti, tolleranti senza essere indifferenti.
Che lo mettano in condizione di essere autonomo, di costruire percorsi in cui
l’energia possa scorrere alla giusta tensione, in argini né troppo stretti né troppo
larghi. «Educarci» dice una bella massima orientale «è come far volare un
aquilone: se si tira troppo la corda o la si tira troppo poco, l’aquilone cade».
Come
la scuola e la famiglia, anche il contesto sociale svolge un ruolo decisivo. La cittadinanza
comincia quando ci si sente parte attiva di un contesto, quando da anonimo
spazio di transito e di consumo la città diventa «immagine riflessa» di una
mappa interiore di affetti, relazioni, stupori. Quando è città che fa posto ai giovani e non si limita a dare loro un
posto. E mettendoli in condizione di «vedere» e non solo di guardare, di «ascoltare»
e non solo di sentire, di «capire» e non solo di sapere, permette loro di
sentirsi a pieno titolo cittadini.
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