giovedì 7 marzo 2019

Marco Ponti: Grandi opere inutili, il ventennio perduto


da: Il Fatto Quotidiano

Le Grandi Opere nascono trionfalmente nel 2001 con Berlusconi, ovviamente senza bisogno di alcuna analisi di alcun tipo: le ha decise lui e tanto basta. Il Pd strilla fortissimo. Poi un po’ meno forte, alla fine contro una sola su 19, il ponte sullo Stretto di Messina. Nei governi successivi emergono voci dissonanti dal “nuovo che avanza”: Matteo Renzi e il suo ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio esprimono perplessità su questo uso dei soldi pubblici. Delrio, appena diventato ministro, con molto coraggio dichiara che occorrono accurate valutazioni per decidere, e mette a punto delle linee-guida, basate sull’analisi costi-benefici. Anche lo scrivente, entusiasta, collabora, insieme a molti altri studiosi. 
                                                                                            
Improvvisamente arriva la Grande Svolta Operistica di Renzi: deve raccogliere consensi, e cosa c’è di meglio delle Grandi Opere? Anche se risultassero inutili, si saprà tra un decennio, intanto si fanno contenti i costruttori, i sindacati (allora la Fiom di Maurizio Landini era contraria…), i politici locali e gli utenti che, indipendentemente da quanti saranno, non pagano. I contribuenti non sanno e non protestano.
Delrio si adegua e rinuncia a ogni analisi, persino alle previsioni di traffico. C’è grande costernazione tra molti studiosi, ma non tutti. Anche l’introduzione di un po’ di concorrenza nei trasporti, che era nel programma iniziale renziano cui lo scrivente collaborò, si ferma (vedi la fusione tra Ferrovie e Anas per creare un colosso pubblico senza molto senso se non anti-concorrenziale). 


Con questo nuovo governo il programma iniziale di Delrio riprende la marcia, certo in modo in po’ affrettato: molti cantieri sono stati incautamente avviati o resi difficilmente reversibili. E fare analisi costi-benefici, per la prima volta, potrebbe servire a dire anche dei “No” motivati.
Nere nuvole si addensano su alcune opere pubbliche di dubbia utilità, o almeno priorità. Mai era successo prima: giustamente gli interessati, che a vario titolo si aspettavano i 133 miliardi promessi dal governo precedente, reagiscono attraverso i media. Il sistema delle grandi opere pubbliche in tutto il modo è poco aperto alla concorrenza, per ragioni tecniche sulle quali qui non possiamo dilungarci. La riprova è che quelli delle maggiori imprese nazionali sono sempre in prima linea in queste battaglie: se ci fosse anche una remota possibilità di gare vinte da perfidi stranieri forse si agiterebbero meno. 

Anche il mondo accademico si mobilita per la causa: studiosi che mai hanno pubblicato qualcosa sul tema, ma soprattutto che mai hanno fatto realmente analisi costi-benefici, si trovano espertissimi della materia, criticando severamente la metodologia che rischia di dire dei “No”. A questi ovviamente si aggiungono studiosi che analisi ne hanno davvero fatte, ma che per ragioni stranissime non hanno mai (mai!) avuto risultati negativi. “Tutto va ben, madamina la marchesa”, perché dubitare dell’avvedutezza dei nostri saggi governanti? Certo le metodologie che dicono dei “No” devono essere sbagliate. Che il settore abbia una fenomenale storia di corruzione e di penetrazione della malavita organizzata è un altro dettaglio del tutto trascurabile.

Ora, val la pena di ricordare qualche aspetto macroeconomico che caratterizza il settore delle grandi opere civili: creano molta poca occupazione per euro speso (sono capital-intensive), tale occupazione è temporanea, ci vogliono dieci anni a finirle (cioè non sono anticicliche), rispetto ad altri settori hanno un modesto contenuto di innovazione tecnologica, sono alquanto impattanti sul territorio, e, come abbiamo già visto, non sono molto apribili alla concorrenza (mentre sono più apribili ad altri attori meno simpatici…). Se hanno un rapporto benefici-costi negativo, fanno diminuire il Pil, non lo aumentano (in realtà la faccenda è più complicata di così, ma non ci si può dilungare qui). Tutto il contrario di investimenti in tecnologia e in manutenzione dell’esistente, soprattutto nel settore dei trasporti. 

Guardiamo il futuro: lo sviluppo del Mezzogiorno sembra a chi scrive una priorità certo ancora maggiore che intervenire nel Nord sviluppato. E non sono certo opere civili o di trasporto di dubbia utilità che lo faranno crescere. Secondo molti studiosi anzi queste sono un “gelato al veleno”, dati i rischi che, per ragioni geografiche e demografiche, rimangano fortemente sottoutilizzate.
Qui davvero la tecnologia e la manutenzione sembrano scelte irrinunciabili, e le analisi economiche e finanziarie possono essere un fondamentale strumento per migliorare le decisioni, piuttosto che la secolare tradizione dell’“arbitrio del principe”.

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