da: Il Fatto Quotidiano
Le Grandi
Opere nascono trionfalmente nel 2001 con Berlusconi, ovviamente senza bisogno di alcuna analisi di alcun
tipo: le ha decise lui e tanto basta. Il Pd strilla fortissimo. Poi un po’ meno forte, alla fine contro una
sola su 19, il ponte sullo Stretto di
Messina. Nei governi successivi emergono voci dissonanti dal “nuovo che
avanza”: Matteo Renzi e il suo
ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio esprimono perplessità su questo
uso dei soldi pubblici. Delrio, appena
diventato ministro, con molto coraggio dichiara
che occorrono accurate valutazioni per decidere, e mette a punto delle
linee-guida, basate sull’analisi costi-benefici. Anche lo scrivente,
entusiasta, collabora, insieme a molti altri studiosi.
Improvvisamente arriva la Grande Svolta Operistica di Renzi: deve raccogliere consensi, e cosa c’è
di meglio delle Grandi Opere? Anche se
risultassero inutili, si saprà tra un decennio, intanto si fanno contenti i
costruttori, i sindacati (allora la Fiom di Maurizio Landini era contraria…), i
politici locali e gli utenti che, indipendentemente da quanti saranno, non
pagano. I contribuenti non sanno e non protestano.
Delrio
si adegua e rinuncia a ogni analisi, persino alle previsioni
di traffico. C’è grande costernazione tra molti studiosi, ma non tutti. Anche
l’introduzione di un po’ di concorrenza nei trasporti, che era nel programma
iniziale renziano cui lo scrivente collaborò, si ferma (vedi la fusione tra
Ferrovie e Anas per creare un colosso pubblico senza molto senso se non
anti-concorrenziale).
Con questo nuovo governo il programma
iniziale di Delrio riprende la marcia,
certo in modo in po’ affrettato: molti
cantieri sono stati incautamente avviati o resi difficilmente reversibili.
E fare analisi costi-benefici, per la prima volta, potrebbe servire a dire
anche dei “No” motivati.
Nere nuvole si addensano su alcune opere
pubbliche di dubbia utilità, o almeno priorità. Mai era successo prima:
giustamente gli interessati, che a vario titolo si aspettavano i 133 miliardi
promessi dal governo precedente, reagiscono attraverso i media. Il sistema delle grandi opere pubbliche in
tutto il modo è poco aperto alla concorrenza, per ragioni tecniche sulle
quali qui non possiamo dilungarci. La riprova è che quelli delle maggiori
imprese nazionali sono sempre in prima linea in queste battaglie: se ci fosse
anche una remota possibilità di gare vinte da perfidi stranieri forse si
agiterebbero meno.
Anche il mondo accademico si mobilita per la causa: studiosi che mai hanno
pubblicato qualcosa sul tema, ma soprattutto che mai hanno fatto realmente
analisi costi-benefici, si trovano espertissimi della materia, criticando severamente la metodologia che rischia di dire dei “No”.
A questi ovviamente si aggiungono studiosi che analisi ne hanno davvero fatte,
ma che per ragioni stranissime non hanno mai (mai!) avuto risultati negativi.
“Tutto va ben, madamina la marchesa”, perché dubitare dell’avvedutezza dei
nostri saggi governanti? Certo le metodologie che dicono dei “No” devono essere
sbagliate. Che il settore abbia una
fenomenale storia di corruzione e di penetrazione della malavita organizzata
è un altro dettaglio del tutto trascurabile.
Ora, val la pena di ricordare qualche aspetto macroeconomico che caratterizza il settore delle grandi opere civili: creano molta poca occupazione per euro speso (sono capital-intensive), tale occupazione è temporanea, ci vogliono dieci anni a finirle (cioè non sono anticicliche), rispetto ad altri settori hanno un modesto contenuto di innovazione tecnologica, sono alquanto impattanti sul territorio, e, come abbiamo già visto, non sono molto apribili alla concorrenza (mentre sono più apribili ad altri attori meno simpatici…). Se hanno un rapporto benefici-costi negativo, fanno diminuire il Pil, non lo aumentano (in realtà la faccenda è più complicata di così, ma non ci si può dilungare qui). Tutto il contrario di investimenti in tecnologia e in manutenzione dell’esistente, soprattutto nel settore dei trasporti.
Guardiamo il futuro: lo sviluppo del
Mezzogiorno sembra a chi scrive una priorità certo ancora maggiore che
intervenire nel Nord sviluppato. E non sono certo opere civili o di trasporto
di dubbia utilità che lo faranno crescere. Secondo molti studiosi anzi
queste sono un “gelato al veleno”, dati i rischi che, per ragioni geografiche e
demografiche, rimangano fortemente sottoutilizzate.
Qui davvero la tecnologia e la manutenzione
sembrano scelte irrinunciabili, e le analisi economiche e finanziarie possono
essere un fondamentale strumento per migliorare le decisioni, piuttosto che la
secolare tradizione dell’“arbitrio del principe”.
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