mercoledì 1 aprile 2020

Gustave Flaubert: Madame Bovary / 3




Intanto, seguendo le teorie nelle quali credeva, ella cercò di crearsi l'amore. In giardino, al chiaro di luna, recitava tutte le rime amorose che sapeva a memoria e sospirava romanze malinconiche, ma non sentiva agitarsi dentro di sé nessuna passione, e Charles non sembrava né scosso né più innamorato.
Dopo aver tentato invano di far sprizzare la divina scintilla stuzzicando l'acciarino del suo cuore, e, del resto, del tutto incapace di comprendere quanto non provava come di credere a quanto non si manifestasse nelle forme tradizionali, non faticò a convincersi che la passione di Charles non era affatto qualcosa di grande.
Le sue espansioni avevano preso un ritmo regolare; la baciava a orari fissi. Era un'abitudine come le altre. Era come un dessert già previsto dopo un monotono pranzo.
Un guardacaccia guarito da una pleurite le aveva regalato una cuccioletta di levriero italiana; Emma la portava con sé, nelle sue passeggiate, poiché talvolta usciva, per avere qualche momento di solitudine e per togliersi di davanti agli occhi l'eterno giardino o la strada polverosa.
Arrivava di solito fino al boschetto di faggi, e raggiungeva la casetta abbandonata che si trovava nell'angolo del muro di cinta, dalla parte della campagna. Nel fossato di confine, fra l'erba, crescevano lunghe canne dalle foglie taglienti.
Cominciava con il guardarsi intorno per vedere se qualcosa fosse cambiato dall'ultima volta che era venuta. Ritrovava allo stesso posto le digitali, i radicchi, i ciuffi di ortiche intorno ai grossi ciottoli, e le macchie dei licheni sulle persiane delle tre finestre, sempre chiuse, che marcivano infradicite sopra le sbarre di ferro coperte di ruggine. I pensieri di Emma, dapprima imprecisi, vagabondavano a caso, come la cagnolina, che percorreva cerchi nei campi abbaiando alle farfalle gialline e dava la caccia ai topiragno addentando i papaveri al limitare di un campo di grano. A poco a poco le idee si delineavano, e, seduta sull'erba, frugandola piano con il puntale dell'ombrellino, Emma si domandava ripetutamente:
"Perché, buon Dio, mi sono sposata?"
Diceva a se stessa che se le cose fossero andate diversamente avrebbe forse avuto modo di incontrare un altro uomo; e cercava di immaginare come sarebbero potuti essere questi avvenimenti non verificatisi, come sarebbe stata questa esistenza diversa, questo marito che non aveva conosciuto. Non tutti gli uomini, infatti, erano uguali a quello che aveva sposato. Sarebbe potuto essere bello, intelligente, distinto, attraente, proprio come dovevano esserlo i mariti delle sue ex compagne di collegio. Che cosa facevano loro, in questo momento? Nelle città ove le strade sono piene di rumore, con il chiasso dei teatri, gli splendori dei balli, potevano condurre un'esistenza nella quale il cuore si rallegra e i sensi si aprono. E invece la sua vita era fredda come un granaio con la finestra esposta a nord e in essa la noia, simile a un ragno silenzioso, filava ragnatele nell'ombra in tutti gli angoli del suo cuore. Rammentava i giorni  in cui venivano distribuiti i premi, quando saliva sul palco per ricevere le piccole corone. Era assai graziosa, con i capelli raccolti in una treccia, l'abito bianco e le scarpette scollate di stoffa bruna; e, quando ritornava al suo posto, gli uomini si chinavano verso di lei per farle complimenti. Il cortile era pieno di carrozze, dai finestrini le facevano cenni di saluto, il maestro di musica, passando con la custodia del violino sotto il braccio, si chinava salutandola. Come tutto ciò era lontano, come era lontano!
Chiamava Djali, le faceva posare il muso sulle ginocchia, e, carezzandole la lunga testa affusolata, le diceva:
«Avanti, da' un bacetto alla padrona, tu che non hai dispiaceri».
Poi, osservando l'aria malinconica dell'agile bestiola che sbadigliava pigramente, si inteneriva e, paragonandola a se stessa, le parlava a voce alta, come con una persona bisognosa di consolazione.
A volte si alzava un vento a raffiche, brezze marine che, superando d'un balzo tutta la piantura della regione di Caux, portavano molto addentro nelle campagne una frescura salmastra. Raso terra fischiavano fra i giunchi, rumoreggiavano con un rapido fruscio fra le foglie dei faggi, mentre le cime di questi alberi continuavano il loro maestoso mormorio dondolandosi  senza posa. Emma si stringeva addosso lo scialle e si alzava.
Nel viale, una luce verde, attenuata dal fogliame, illuminava il musco rasato che scricchiolava dolcemente sotto i suoi passi. Il sole era al tramonto, il cielo rosseggiava fra i rami, e i tronchi tutti eguali e ben allineati somigliavano a un colonnato scuro contro un fondale d'oro; Emma si sentiva presa da un vago sgomento, chiamava Djali, e tornava svelta a Tostes, seguendo la via maestra. A casa, sprofondava in una poltrona e per tutta la sera non apriva più bocca.
Ma, verso la fine di settembre, nella sua vita accadde qualcosa di straordinario: fu invitata alla Vaubyessard, dal marchese di Andervilliers.

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