lunedì 27 aprile 2020

Coronavirus: i medici denunciano le aziende sanitarie, la politica vuole lo scudo penale


di Milena Gabanelli e Rita Querzè

In Europa, l’Italia è il Paese dove da anni la probabilità di prendersi un’infezione negli ospedali, è in assoluto la più alta: il 6%. È la conseguenza di un graduale aumento di rischi specifici inclusa la scarsa formazione degli operatori sanitari a osservare le misure di sicurezza, a partire da quelle igieniche. In questo quadro è esploso il Covid-19.
Oggi il personale sanitario, che conta 19.942 contagiati e 185 morti, attraverso le sue rappresentanze sindacali ha presentato un esposto ai Nas oltre che alle procure di dieci regioni: contestano alle aziende ospedaliere di non avere tutelato medici e infermieri come dovuto.
La questione riguarda anche noi cittadini, perché i medici positivi al virus rischiano di trasformare gli ospedali in focolai del contagio, e il livello di sicurezza del personale sanitario è una delle chiavi del successo (o dell’insuccesso) della lotta contro il coronavirus.
Il piano contro le pandemie mai attuato

Vediamo come sono andate le cose, a partire dai presidi di tutela numero uno: le mascherine.
Le Regioni avevano sul tavolo il piano contro le pandemie (dal 2007 in Veneto ed Emilia Romagna, e ben due a partire dal 2006 in Lombardia). Una disposizione chiave dice: «Fate scorta di dispositivi di protezione, mascherine, guanti, tute». Al contrario della Germania, le nostre aziende sanitarie non lo hanno mai attuato, e quando è arrivata la tempesta i dispositivi mancavano. Va sottolineato che, per i medici, le mascherine dovevano essere le FFP2 e P3. Lo richiedeva l’Inail. Siccome scarseggiavano le
regole sono state cambiate in corsa dall’Oms e poi dal governo stabilendo che bastavano quelle chirurgiche, che proteggono il paziente ma non l’operatore. È andata avanti così fino a poco tempo fa, e quindi si sarebbe dovuto, quantomeno, fare il tampone a medici e infermieri esposti, per tenerli fuori dagli ospedali in caso di positività, come raccomanda dal 25 marzo il Ministero della Salute. D’altra parte, fin da fine febbraio, con l’analisi dei primi casi di Vo Euganeo e di Codogno, è stato confermato che a trasmettere il virus sono anche persone senza sintomi, ma infette.

Ma per capire come ogni ospedale si regola con i propri operatori prendiamo tre casi: il Papa Giovanni XXIII di Bergamo, l’Azienda Ospedaliera di Parma e quella di Padova nei giorni dell’emergenza, cioè dal 20 febbraio fino a Pasqua. Nei tre ospedali, ai medici che si ammalavano in corsia veniva subito fatto il test, e i positivi tornavano in servizio solo quando avevano due tamponi negativi. Ma cosa succedeva quando un medico o un infermiere scopriva a casa di avere i sintomi del Covid-19? Ai medici di Padova e di Parma veniva fatto il tampone, e se positivo scattava l’infortunio sul lavoro. A Bergamo, invece, se non finivano ricoverati, spesso restavano a casa in malattia finché non erano guariti, senza che venisse fatto alcun tampone per sapere se avevano contratto la malattia, esponendo così i familiari. Il tampone non veniva fatto nemmeno al ritorno in ospedale, per verificare se erano ancora contagiosi. Inoltre, per loro non si poteva applicare l’infortunio legato al Covid-19, perché la direttiva Inail prevede l’esito del tampone positivo (che nessuno ha fatto).

Una differenza non da poco: con l’infortunio, in caso di invalidità o morte, sono previste indennità, con la semplice «malattia» invece a molte direzioni sanitarie hanno pure imposto inizialmente un taglio alla busta paga sui primi dieci giorni di assenza, applicando la legge Brunetta.

La diffida alla Regione Lombardia
E così decine di ospedalieri sono tornati in corsia, a contatto con i pazienti, senza sapere di cosa si erano ammalati. Dopo le continue proteste delle associazioni dei medici, il 10 aprile la Regione Lombardia ha emanato un’ordinanza in cui viene prescritto il tampone anche ai medici che si sono ammalati a casa, o che hanno sintomi. Ebbene, venerdì 24 aprile l’Anaao, insieme a tutte le altre associazioni, ha inviato una diffida alla Regione perché diverse aziende sanitarie si rifiutano di fare il tampone al personale sanitario che ha riscontrato i sintomi del Covid-19 mentre era a casa e anche a quelli che stanno in corsia (tosse, perdita dell’olfatto e del gusto) se non hanno anche la febbre sopra 37,5.

I medici asintomatici a Parma, Padova, Bergamo
Ci sono poi i casi dei medici asintomatici che dentro l’ospedale hanno avuto contatti senza mascherina con persone malate. A Bergamo nei giorni successivi al «contatto a rischio» non veniva fatto alcun tampone per scoprire se erano stati contagiati. In situazioni analoghe a Parma veniva fatto il test entro sette giorni, e chi risultava positivo veniva mandato a casa.
A Padova invece venivano fatti 4 tamponi nell’arco di 14 giorni. Padova è anche l’ospedale che in assoluto ha fatto più tamponi: ogni 10 giorni vengono sottoposti al test tutti gli operatori dei reparti Covid, e ogni 20 giorni il personale degli altri reparti. Il risultato è che il 39% dei medici positivi è asintomatico. Vuol dire che senza questo monitoraggio avrebbero potuto contagiare familiari e pazienti a loro insaputa.

Quando ad ammalarsi è il medico di base
Infine i medici di famiglia. Per loro non ci sono procedure da seguire e fino a pochi giorni fa nemmeno i dispositivi di protezione. Con il Covid, l’Inps ha sospeso le visite fiscali ma ai medici è stato lasciato l’obbligo di vedere il paziente per fare il certificato medico, e quello di fare le ricette di carta per una serie di farmaci, come le terapie del dolore. Cosa succede quando un medico di base si ammala? In Lombardia ancora oggi in buona parte possono contare sul tampone soltanto se finiscono al pronto soccorso. In Emilia Romagna bastavano i sintomi, come in Veneto, dove invece da quasi un mese si esaminano tutti i medici di famiglia, anche senza sintomi. La velocità varia a seconda dei territori. Si va dal 97% in provincia di Padova, al 25% di quelli della provincia di Verona (fonte Fimmg).

Scudo penale per tutti, ma i medici non ci stanno
Intanto dal 2 aprile in Emilia sono partiti i test sierologici su tutto il personale sanitario, in Lombardia sono iniziati il 23 aprile, con diversi gradi di priorità. Il risultato di tutto questo è che il tasso di infezione degli operatori sanitari, calcolato dall’ISS, in Lombardia è 19,1 volte superiore a quello della media della popolazione, in Emilia Romagna 6 volte, e in Veneto 3,9 volte. Li abbiamo chiamati giustamente «eroi», ma visto che durante la pandemia non avevano le condizioni adeguate per curare i pazienti di Covid-19, i medici hanno chiesto uno scudo penale e civile limitato ai mesi dell’epidemia. Maggioranza e opposizione si sono dette favorevoli, ma hanno presentato emendamenti al Cura Italia (uno firmato da Salvini per la Lega e uno da Marcucci per il Pd) che toglievano ogni responsabilità anche ai dirigenti delle aziende sanitarie e delle Regioni, impedendo anche al personale sanitario di contestare inadempienze al datore di lavoro. I primi ad insorgere sono stati proprio i medici dicendo che se così dovevano andare le cose avrebbero rinunciato allo scudo anche per se stessi. Alla fine gli emendamenti sono stati ritirati, ma il Parlamento ha disposto con un ordine del giorno che si tornerà sulla questione a breve. Chiarire cosa ha funzionato e quali errori sono stati fatti è un dovere: nei confronti del personale sanitario, delle vittime, e dei cittadini che finanziano il sistema sanitario pagando le tasse.

Per chi si ammala a casa niente infortunio
Ogni Regione ha le sue regole, che poi vengono recepite in modo diverso dalle singole aziende sanitarie. Una però vale per tutti: chi si ammala di Covid-19 torna al lavoro dopo due tamponi negativi. All’ospedale di Lodi succede che almeno cinque medici positivi al test, vengono fatti rientrare dalla malattia dopo un solo tampone negativo.

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