da: Il Fatto Quotidiano - di
Guido Rampoldi
Tutte le guerre del petrolio sono
giganteschi intrighi internazionali nei quali i protagonisti recitano con una
maschera sul volto, per nascondere il proprio ruolo e le proprie intenzioni. Il
caotico conflitto in Libia non fa differenza, e questo spiega perché, ieri sera,
non era affatto agevole capire se il rapimento dei tre tecnici occidentali, due
italiani e un canadese, sia opera di predoni che agiscono in
proprio o di fondamentalisti che intendono punire la scelta italiana di
inviare duecento militari a Misurata; se sia il prodotto di
un’anarchia militare che ormai contagia anche il sud e le regioni di confine
con l’Algeria oppure nasconda un’operazione coperta di chi vuole estromettere
l’Italia dalla partita.
Nella speranza che le prossime giornate
fughino ogni dubbio, quel che è necessario, adesso e in futuro, è la chiarezza.
Senza la quale rischiamo di ripetere la disastrosa avventura che fu la
precedente guerra di Libia, nella quale governo, Parlamento e media non
trovarono di meglio che accodarsi a Sarkozy e avallare, insieme alle sue
clamorose menzogne, un intervento militare demenziale, da cui per giunta Parigi
voleva ricavare vantaggi a scapito degli interessi italiani. La settimana scorsa il Parlamento
britannico ha sfornato un rapporto che decostruisce quel conflitto e critica
senza mezzi termini il ruolo che
vi ebbe il governo Cameron. Il
Parlamento italiano non pare in grado di altrettanta onestà; e i media certo
non sono più coraggiosi.
Dunque proviamo
a togliere alcune maschere. Innanzitutto la maschera umanitaria. I duecento militari inviati a Misurata
dovranno certo difendere l’ospedale
italiano, come sostiene il governo, ma soprattutto attestarsi al fianco del governo di Tripoli, di cui le milizie
misuratine sono di fatto l’esercito. Siamo con quel governo per ragioni
politiche (per quanto si tratti di un artificio, è un artificio riconosciuto
dall’Onu, e comunque è l’unica istituzione che rappresenti la nazione libica
nella sua interezza contro chi vorrebbe tripartirla) e per ragioni molto
concrete (la Tripolitania è fondamentale per la logistica petrolifera
dell’Eni).
Al solo udire la parola “petrolio” di solito scattano esecrazioni
e indignazioni: ma qui stiamo parlando dell’interesse strategico di un Paese,
l’Italia, affamato di idrocarburi e già di per se malmesso. Non è immorale proteggere quegli interessi, se la loro
difesa coincide con l’interesse
generale della popolazione libica.
Si tratta di trovare una sintesi onorevole tra il bene e l’utile: non è
ipocrita cercarla, è ipocrita fingere
che l’utile non sia un fattore importante dell’equazione. Allo stesso tempo la
politica estera italiana non può esaurirsi nella protezione dei nostri
interessi petroliferi. È nelle nostre convenienze avere alle porte una Libia
stabile, orizzonte che secondo il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni
richiede una Libia unita.
Le grandi
compagnie petrolifere, Eni inclusa, ritengono invece che la tripartizione della Libia, la soluzione
cui punta Bengasi con le sue milizie, sarebbe la soluzione più utile alla
difesa dei propri interessi, perché spartendo il Paese in zone d’influenza
risolverebbe i conflitti aizzati dai giacimenti di idrocarburi.
È un ragionamento
pericolosissimo per vari motivi: la sua chiara ispirazione neo-coloniale
prima o poi scatenerebbe la reazione araba; e la difficoltà di una spartizione
che accontentasse tutti – milizie, compagnie internazioni, Stati coinvolti
nella mischia – porterebbe ad un proseguimento del conflitto.
Poiché in Italia da molto tempo l’Eni, pur non avendo alcun titolo per farlo, decide la
nostra politica estera negli scacchieri in cui ha rilevanti interessi
petroliferi, in Libia rischiamo di avere due politiche estere, cioè nessuna.
Siamo a Misurata con truppe scelte,
ma anche a Bengasi con personale nel
comando occidentale che sovrintende al traffico aereo militare. Insomma siamo
con il governicchio unitario di Tripoli, ma forse un po’anche con il
governicchio della secessionista Bengasi. Certe furberie, di cui Parigi è maestra, rischiano di essere
controproducenti. Non sarebbe salutare passare per inaffidabili agli occhi
degli uni e degli altri, proprio mentre si accende la guerra dei pozzi.
Infine dev’esserci chiaro che il conflitto
libico è una partita complicatissima nella quale non esistono soluzioni magiche
e alla fine tutti rischiano di essere perdenti. Restare, sfilarsi, ogni scelta
è un azzardo. E mentire, magari mentendo a se stessi, è l’azzardo peggiore.
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