I
tossici da Jobs Act e la precarietà cronicizzata
Pubblicati oggi da Inps i dati
mensili su attivazioni e cessazioni di contratti di lavoro, nella cornice
dell’Osservatorio sul precariato. Da essi si ricava, manco a dirlo, che col
taglio dei sussidi, le assunzioni a tempo indeterminato sono divenute pressoché
esangui. Se poi andiamo ad utilizzare alcuni numeri di sintesi, inclusi delle
cessazioni, e più rappresentativi delle effettive dinamiche congiunturali del
mercato del lavoro, scopriamo cose non esattamente eclatanti.
Andate quindi a questo documento, e
reperite la tabella 3 (pagina 11 del file pdf), relativa alla
variazione netta dei rapporti a tempo indeterminato. Essa è data
dalla somma di nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato, trasformazioni a
tempo indeterminato di rapporti a termine e numero di apprendisti trasformati a
tempo indeterminato. Sottraete a questa somma le cessazioni di rapporti di
lavoro a tempo indeterminato e scoprirete che, nel bimestre gennaio-febbraio
2016, il saldo netto è di 37.113 posti. Nello stesso periodo del 2015 tale
variazione netta era stata di 143.164. Pertanto, con un complesso algoritmo,
scopriamo che nel 2016 si è verificata una contrazione del
74% nella
variazione netta dei rapporti a tempo indeterminato rispetto al 2015. Nel
bimestre gennaio-febbraio 2014, ultimo del governo di Enrico Letta, tale
variazione era stata di 87.180. Ops.
Inutile ripetere gli stessi concetti: ormai
vi usciranno dalle tasche per averli letti più e più volte. Quando si altera un mercato a colpi di
sussidi temporanei, pare che l’effetto “sbornia” si presenti con puntualità
mortale. Altro dato politicamente sfizioso è quello relativo all’incidenza
dei contratti a tempo indeterminato attivati/variati rispetto al totale dei
rapporti di lavoro, sempre attivati o variati. Ebbene, a pagina 33 del
documento trovate il numeretto: a gennaio-febbraio 2014 il 37,5% dei contratti
erano a tempo indeterminato. Nel 2016 tale rapporto è sceso al 33,8%
In pratica, il mercato sta tornando al suo
“stato di quiete”, o meglio di stagnazione, che è imprescindibilmente legato
alla congiuntura, che per l’Italia resta esangue. Ma qualcosa è in realtà
cambiato, nel frattempo: ed è il boom dei voucher (pagina 39), che nel primo
bimestre 2016 aumentano del 45,2% sullo stesso periodo del 2015. Il rilievo
politico è che, se il governo Renzi col Jobs Act perseguiva la fuoriuscita
dalla precarietà, il dato dei voucher dimostra che il sistema tende ad andare a
riprendersi altrove tale precarietà. Certo, l’aspetto positivo del boom dei
voucher è che almeno si circoscrive il nero e si recuperano risorse contributive,
ma questa appare una consolazione piuttosto magra per un governo che ha
presentato l’azione sul mercato del lavoro come contrasto al precariato.
Naturalmente, potete anche fischiettare e
far finta di nulla, citando dati ormai vecchi e relativi alla droga del
sussidio:
Le trasformazioni a tempo
indeterminato di rapporti a termine sono passate da 331.000 (2014) a 573.000
(2015), con un incremento di 242.000
— nomfup (@nomfup) 19
aprile 2016
Oppure potete prendere per buona la
supercazzola metodologica di Pietro Ichino ed attendere fiduciosi le magnifiche sorti
e progressive del mercato italiano del lavoro. Fossimo in voi non tratterremmo
il fiato, comunque. La sintesi estrema è: il Jobs Act non serviva a spingere
l’occupazione, ed infatti è andata così; doveva per contro servire a rimuovere
precarietà ma il fenomeno del boom dei voucher pare sconfessare anche questa
aspirazione, certamente più giustificabile e meno demenziale dell’altra. Su
tutto, resta che dal primo gennaio 2018 dovremo trovare soldi, e tanti, per
ridurre il cuneo fiscale in modo strutturale e per tutti, altrimenti saranno
cavoli amari ed avremo gettato nello sciacquone 3 anni ed una ventina di
miliardi. Ma sempre per colpa degli ottusi burocrati di Bruxelles, che non ci
danno la flessibilità di cui necessitiamo, sia chiaro. Perché noi il deficit
sappiamo spenderlo meglio di chiunque altro, sia chiaro.
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