da: http://www.glistatigenerali.com/
- di Giovanni Del Re
«Complotto anti-italiano», «Italia
svantaggiata a Bruxelles», e chi più ne ha più ne metta. La vulgata sulla
posizione del Belpaese nella “capitale” d’Europa è questa. Ma è una
leggenda sostanzialmente falsa, che nasconda una verità diversa: dentro
l’Unione Europea il primo grande “nemico” dell’Italia è l’Italia stessa. Salvo
qualche eccezione ai tempi di Mario Monti ed Enrico Letta, da anni l’Italia
latita a Bruxelles. E dire che se c’è una piazza in cui la massiccia presenza,
la rete di contatti, lo scambio costante e continuo di informazioni è cruciale,
è proprio questa.
Giorni fa ha fatto scalpore la notizia di
fonti europee che lamentavano l’assenza di un vero interlocutore per Bruxelles
a Roma. È vero. Manca, in effetti, quello che in gergo viene chiamato
“sherpa”, l’uomo vicino al capo di governo che si occupa esclusivamente di Europa,
l’uomo da chiamare in qualsiasi situazione. Ce l’hanno in tanti, non solo i
“big” come Francia, Germania, Gran Bretagna, ma anche paesi come la Polonia o
la Spagna, o anche la piccola Austria. È il vero ufficiale di
collegamento, che ha un contatto più immediato e diretto con il capo del
governo, perché gli siede accanto, nella capitale, di quanto può avere il
rappresentante permanente. Gli sherpa chiamano due, tre, quattro volte a
settimana negli uffici di Juncker. Non solo per risolvere crisi e problemi,
anche, semplicemente, per confrontarsi, aggiornarsi e aggiornare sugli ultimi
sviluppi. L’Italia, invece, si fa sentire, e con la gran cassa, quando i
problemi diventano grandi, si passa subito al livello politico e scoccano
scintille.
Molti accusano Matteo Renzi di capire poco
l’Europa. Ma forse non è solo colpa sua, è anche di chi (non) lo consiglia – o
forse lui non ascolta. Ha fatto storcere il naso a molti il fatto che il
premier abbia soppresso la carica di ministro per gli Affari europei (che
praticamente tutti gli altri stati membri hanno) per sostituirla con un
sottosegretario, condannato a esser guardato, in quanto di rango inferiore,
dall’alto in basso dai partner nelle riunioni.
Ai suoi primi vertici Ue Renzi del resto si
fece notare per il suo arrivo in grande ritardo, mentre la cancelliera tedesca
Angela Merkel e il presidente francese François Hollande erano già da tempo in
sala. Prima c’erano stati fitti incontri bilaterali o trilaterali, che Renzi
apertamente snobbò. Ma è lì che si fanno i veri accordi. La scarsa conoscenza
delle cose europee lo ha portato, nel 2014, a puntare al portafoglio sbagliato
in seno alla Commissione Europea, quello del Servizio esterno (il “ministero
degli Esteri” Ue). L’Alto rappresentante Federica Mogherini – almeno da un
punto di vista Ue – fa un buon lavoro. Il problema è che la politica estera Ue
è debole, e l’Alto rappresentante, che è anche uno dei vicepresidenti della
Commissione Europea, non sempre può partecipare alle cruciali riunioni del
collegio dei commissari perché in missione all’estero. Qualcuno aveva
consigliato a Renzi di puntare su portafogli economici, o le politiche
regionali (pieni di soldi), ma il premier preferì lo scintillio dell’alta
carica. E oggi, sostengono, se ne pente.
Altro punto dolente, già ai tempi di Silvio
Berlusconi, è che alcuni ministri disertano le riunioni a Bruxelles, mandando
sottosegretari, a volte persino il solo ambasciatore. Un “campione” in materia
è il ministro per le politiche agricole Maurizio Martina, avvistato nel 2015 in
tutto quattro volte a Bruxelles. Stiamo parlando di dossier cruciali per
l’Italia. Il collega agli Interni Angelino Alfano viene regolarmente, ma spesso
se ne va in anticipo, e, sostengono alcuni osservatori, interviene poco durante
le riunioni.
Del resto anche l’organizzazione a
Bruxelles è carente. «I tedeschi hanno messo un “cane da guardia” in ogni
direzione generale, che osserva tutti gli sviluppi dentro la Commissione passo
passo e tiene Berlino al corrente», racconta una fonte comunitaria. Risultato:
il governo tedesco è informato sul nascere di ogni iniziativa legislativa, ed è
in grado di intervenire fin dall’inizio su iniziative che non gli convengono.
Lo stesso fa la Francia.
L’Italia, invece, spesso dorme. Un paio di
esempi? Il negoziato per l’accordo di libero scambio Ue-Corea è stato quasi
ignorato a Roma, salvo accorgersi, ormai a un passo dalla firma, che recava
svantaggi per il settore auto italiano. Troppo tardi, impossibile smontare o
fermare l’intero accordo. Oppure il caso del brevetto europeo: solo a fine
percorso l’Italia (erano i tempi di Berlusconi) si accorse che era stato
introdotto il principio delle tre lingue in cui presentare le domande di
brevetto (inglese, francese e tedesco). Il Cavaliere si imbufalì, e fece uscire
l’Italia dal brevetto europeo (Renzi poi ha corretto il tiro).
La pessima abitudine, inoltre, di
considerare Bruxelles come una pattumiera in cui scaricare i “trombati”
nostrani ha riempito le delegazioni di europarlamentari italiani (con notevoli
eccezioni, va detto) di peones frustrati che riempiono le caselle di posta
elettronica dei giornalisti di polemicucce tutte italo-italiane, o addirittura
regionali, e si segnalano per clamorose assenze. E così capita che, ad esempio,
la delegazione del Pd (forte del 40% conquistato alle ultime europee) ha
ottenuto appena quattro coordinatori per la commissioni parlamentari – che sono
cruciali (e spesso più potenti dei presidenti delle commissioni) perché, ad
esempio decidono chi fare relatore di un particolare dossier – contro i dieci
dei socialisti tedeschi. A livello di rappresentanza – la nostra ha, certo,
ottimi funzionari – spicca, viste le scarse risorse finanziaria,
l’insufficienza di personale. Un esempio: alla rappresentanza tedesca (circa 10
volte il numero dei funzionari della nostra), a occuparsi del cruciale settore
dei Trasporti sono in cinque, da noi uno solo.
Potremmo continuare con le lobby delle
grandi categorie. Quelle tedesche hanno propri rappresentanti direttamente
inseriti nella rappresentanza permanente della Germania, i grandi comparti
industriali agiscono di concerto con il governo. Quelle italiane sono
sparpagliate, spesso scoordinate. Peggio per le rappresentanze regionali:
quella della Baviera ma anche della Catalogna sono macchine micidiali di
lobbying a sostegno dei propri comparti economici, le nostre spendono soldi per
cocktail e festicciole per assaggi dei soliti prodotto agroalimentari locali.
Infine, c’è un problema di fondo che si
chiama sistema-paese. In Francia o in Germania, quando in ballo è un posto
importante, la prima cosa che conta è che sia rispettivamente un francese o un
tedesco a ottenerlo. François Hollande, socialista, sostiene Christine Lagarde,
fedelissima di Nicolas Sarkozy, per un secondo mandato al Fondo monetario
internazionale, ad esempio. Perché è l’unica francese che può ottenere quel
posto. L’Italia no. Tutti ricordano la faccia storta di Giulio Tremonti alla
notizia che un italiano, Mario Draghi, arrivava niente meno che al timone della
Bce – con l’appoggio di Berlino, mica di Roma. E adesso che si prospetta la
possibilità di avere l’ormai ex rappresentante permanente d’Italia Stefano
Sannino, silurato da Renzi, alla direzione generale per l’Immigrazione – posto
cruciale per l’Italia – a Roma si parla di “tradimento”, e gesto
“anti-governativo” perché non è un uomo del premier. Non lamentiamoci se poi
gli altri si fanno i propri interessi e l’Italia resta al palo.
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