da: Il Fatto Quotidiano – di Giorgio Meletti e Carlo Tecce
La parabola: Renzi l’ha usato per la scalata, poi
illuso e infine esiliato alle Infrastrutture, che non ha rivoluzionato dopo
l’era Incalza: dagli investimenti alle concessioni, fino alle nomine
Una volta, quasi vent’anni fa, Graziano Delrio
ha usato il coraggio in politica. Poi ha smesso. Il medico endocrinologo, padre
di nove figli, sfidò il candidato di Pierluigi Castagnetti per la Regione
Emilia Romagna, prese oltre 4 mila preferenze e fu eletto consigliere. Il mite
presidente dell’associazione Giorgio La Pira partì da lì per strappare agli ex
comunisti il Comune di Reggio Emilia. Anche se La Pira non c’entra niente, la
carriera di Delrio passa per Firenze. Con il supporto di un Matteo Renzi agli esordi
sullo scenario nazionale, cinque anni fa, il medico scala pure l’Anci,
l’Associazione dei Comuni italiani e da lì costruisce la sua piccola corrente
con Sergio Chiamparino e Angelo Rughetti.
GRAZIANO considera Matteo un fratello
minore, vorrebbe far valere la differenza d’esperienza, ma il ragazzotto di
Pontassieve detesta i pigmalioni. Lo sfrutta per conquistare i palazzi romani e
lo piazza ministro nel governo di Enrico Letta. Quando il tenero esecutivo
lettiano va in difficoltà dopo la condanna di Silvio Berlusconi e la scissione nel
centrodestra, Renzi continua a ripetere a Delrio: soltanto tu puoi prendere il posto
di Letta. Poi il posto
lo prende Matteo, e l’amico Graziano dissimula la
delusione. Come risarcimento politico, Renzi gli promette il ministero dell’Economia,
ma Giorgio Napolitano lo blocca perché vuole un economista. Delrio non fa una
piega: accompagna Renzi nello studio alla Vetrata per consegnare la lista dei
ministri a Napolitano e viene nominato sottosegretario alla Presidenza del
Consiglio.
La felice coabitazione a Palazzo Chigi dura
solo qualche mese. Il tempo per Renzi di ascoltare le rimostranze di Maria Elena
Boschi e Luca Lotti, i fedelissimi che vivono di sospetti e non sopportano
presenze ingombranti. Contro ogni logica di competenze, Lotti viene incaricato
di seguire il Cipe, il comitato interministeriale per la programmazione economica,
un centro di spesa che può alimentare le ambizioni del “Lampadina”. Boschi
diventa il ministro immagine e prepara con i suoi consiglieri – Paolo Aquilanti
e Cristiano Ceresani – l’assalto alla macchina burocratica di Palazzo Chigi.
Delrio è accerchiato, poi Napolitano si
dimette e Renzi riapre il libro delle favole, comunicando a Delrio che per il
Quirinale può sentirsi in corsa. Il medico,
paziente, aspetta. Ma Renzi fa eleggere Sergio Mattarella e alla prima
occasione, dopo le dimissioni di Maurizio Lupi, spedisce Delrio al ministero
delle Infrastrutture. L’ex braccio destro esiliato s’inabissa, non va in
televisione, non dichiara, non si muove.
Per il referendum, chiamato alle armi dal
Capo, partecipa senza convinzione. Ma dopo la Caporetto del 4 dicembre, per non
sembrare un traditore, torna a celebrare Matteo. Però consegna la verità a un
fuorionda: “Non ha fatto nemmeno una telefonata per evitare la scissione, come
cazzo fai?”. Confidandosi con il deputato pd Michele Meta, Delrio sottintende
che Renzi l’ha ignorato nelle fasi di trattativa con i bersaniani. Scalcia ma
non si allontana mai dal Capo. Gli manca sempre un pezzo per completare
l’opera. Non è mai troppo renziano, mai poco renziano. Per le primarie del 30
aprile prepara un numero da archeologia della politica: una lista di sostegno a
Renzi (ma autonoma) con Chiamparino, Rughetti e Richetti. A che serve? A
distinguersi restando vicini. Convergenze parallele: schierarsi con Renzi senza
schiantarsi con Renzi.
Le incertezze
strategiche di Delrio sono, forse, alla base della paralisi alla guida delle Infrastrutture. L’arrivo in bicicletta dell’ex
sindaco di Reggio Emilia al palazzone romano di Porta Pia faceva presagire
cambiamenti rivoluzionari. Era il marzo del 2015. Arrestato Ercole Incalza, da
anni vero dominus dei lavori pubblici, il ministro
Lupi, che da Incalza si faceva dettare perfino le risposte da dare nelle
interviste, si era dovuto dimettere per il famoso Rolex regalato a suo figlio dall’ingegnere Stefano Perotti. Delrio fece sapere che entro l’estate avrebbe
affrontato lo storico cancro del ministero: 200 dirigenti inamovibili anche per decenni, mentre nuovi ministri vanno
e vengono.
È successo poco. Lamentando di poter
spostare nessuno senza il soccorso della riforma Madia della Pubblica amministrazione,
Delrio non ha provocato molti disturbi all’ordinato flusso della quotidianità segnata
dall’armonia tra appaltanti e appaltatori, tra controllori e controllati.
Amedeo Fumero, capo del dipartimento dei Trasporti, l’ex ministero fuso con i
Lavori pubblici, è andato in pensione nei giorni scorsi dopo 18 anni nello
stesso posto. Al dipartimento dei Lavori pubblici Delrio ha nominato Elisa Grande, arrivata con lui da
Palazzo Chigi, dopo aver lasciato la poltrona vacante per un anno e mezzo.
Grande, appena insediata, ha raccomandato agli altri dirigenti di non agitarsi
perché le elezioni incombono e tutto
è caduco.
Clamoroso il caso di Roberto Linetti. Sulla sua nomina a Provveditore delle Opere pubbliche del Lazio, decisa da Lupi nel
2013, è stato aperto un fascicolo presso
il Tribunale dei ministri di Roma per abuso d'ufficio. Linetti due anni fa risultava
indagato assieme al ministro che l’aveva nominato, all’allora capo di gabinetto
Giacomo Aiello e a due costruttori. Con Delrio, Linetti ha concluso
indisturbato il suo mandato triennale. Nell’autunno scorso il ministro lo ha mandato
a fare il provveditore a Venezia, cioè a
garantire che il Mose (5 miliardi di euro di scandalo) venga portato a
termine senza ulteriori reati.
È rimasto
serenamente al suo posto anche il capo della vigilanza sulle concessionarie
autostradali Mauro Coletta, che
tiene la posizione da dieci anni con viva soddisfazione dei vigilati. Con lui
Delrio realizza il progetto voluto da Renzi con il decreto Sblocca Italia del 2014, cioè la generalizzata proroga
delle concessioni autostradali in spregio della normativa europea che impone le
gare. Nei rari casi in cui le gare si fanno, i tempi sono biblici. La
concessione della Piacenza-Brescia è
scaduta nel 2013, la gara è stata vinta nel 2015 dal gruppo Gavio (duopolista del
settore con i Benetton), ma da due anni il ministero non trova il tempo di scrivere
la nuova convenzione. La Napoli-Pompei-Salerno
ha la concessione scaduta da cinque anni, le offerte per la gara sono state presentate
il 24 aprile 2015, Delrio non ha avuto tempo di aprire le buste. La gara è
ancora in corso. La concessione dell'Ativa (tangenziale di Torino e Torino-Ivrea),
anch’essa controllata da Gavio, è scaduta l’estate scorsa. Delrio non ha fatto una piega e a Capodanno è riuscito anche ad aumentare
i pedaggi.
PER
LA A22 del Brennero invece l'ex sindaco di Reggio Emilia ha
trovato una soluzione elegante.
Scaduta la concessione tre anni fa, ha escogitato la proroga da affidare a una nuova
società pubblica per aggirare l'obbligo
di gara. Festeggiano gli enti territoriali che si sono battuti per anni per la
proroga. Tra loro la Provincia di Reggio Emilia.
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