da: http://gilioli.blogautore.espresso.repubblica.it/
Le cronache della politica raccontano oggi
della determinazione assoluta con cui il governo e la sua maggioranza stanno
lavorando per impedire il referendum sui voucher, che in teoria si dovrebbe
svolgere il 28 maggio.
Non è difficile vedere le ragioni di questa
corsa per impedirci di votare.
Una è quasi ovvia: c'è il rischio che anche
questo referendum, così come quello sulla Riforma Boschi, si trasformi in un
giudizio sul Pd. E su Renzi, che nel Jobs Act ha alzato del 40 per cento il
tetto dei voucher, aumentandone la diffusione. Un bis del 4 dicembre non
sarebbe esattamente utile a confermare la narrazione del
"ricominciamo", "ci rialziamo", "ora rimontiamo come
il Barcellona" che l'ex premier e i suoi hanno inaugurato al Lingotto.
Ma ce ne sono altre due, di ragioni per cui
vogliono evitare il referendum, anche se meno visibili.
La prima è che la sinistra di questo Paese
- allo stato dispersa e derisa -
potrebbe giovarsi molto di una campagna
elettorale su un tema concreto come il sottolavoro mal salariato. In altri
termini, rischierebbe di crearsi a sinistra di Renzi qualcosa di meno
raccogliticcio dell'attuale galassia di partitini e sigle. In ogni caso, una
fetta di elettori troverebbe una sua casa in questa battaglia. Con l'aggravante
che, se vincessero i Sì, questa casa troverebbe le sue fondamenta proprio in
quel grande corpo intermedio - la Cgil - che i tre anni renziani hanno tentato
di polverizzare.
Sicché il referendum sui voucher sarebbe
un'ufficializzazione - ma anche una rappresentazione evidente - del fatto che
in Italia esistono ormai due aree diverse (se non contrapposte) con radici
nella sinistra: una liberal-liberista, competitivista, vincista, che propone le
stesse ricette di Marchionne e Briatore; l'altra socialista e welfarista, che
antepone i diritti alla competizione e che guarda più a Sanders o a Podemos che
non a Hillary Clinton o a Macron.
Questo scenario è esattamente il contrario
di quello che vuole il Pd renziano, il quale ancora rivendica di occupare il
campo della sinistra in Italia e che punta alla dispersione di tutto ciò che
sta al di fuori.
Ma c'è anche un'ultima ragione per cui il
referendum sui voucher fa tanta paura, molto oltre i suoi specifici contenuti
tecnici.
Ed è il fatto che un'agenda mediatica
incentrata per un mese o due sui voucher farebbe emergere il significato
politico forte del voto: cioè il parere degli italiani sull'economia dei
lavoretti, quella che gli anglosassoni chiamano gig economy. Quindi non solo
sui voucher, ma su tutte le forme di lavoro senza continuità, senza diritto
alla malattia o alle ferie e con salari che gridano vendetta a Dio: dai
fattorini di Fodoora alla logistica di Zalando e simili.
Si sa che su queste modalità di impiego
"snack" si è fondata tutta l'ideologia economica che ha conquistato
l'egemonia culturale negli ultimi decenni: se n'è teorizzata non solo
l'ineluttabilità, ma anche i grandi vantaggi che avrebbe portato al Pil e al
benessere collettivo e perfino la maggiore libertà e varietà che questi orari
iper flessibili avrebbero consentito (cfr Mario Monti, "il posto fisso è
noioso").
Tuttavia, siccome puoi ingannare tutti per
un po' di tempo ma non per sempre, negli ultimi anni questo modello di società
ha, diciamo, subito un certo calo di consenso popolare, specialmente nelle
generazioni più giovani, che maggiormente lo subiscono. L'ipotesi che questo
modello venga sonoramente bocciato alle urne - sparite voi e i vostri lavoretti
- non sarebbe molto gradita a chi ne è stato in questi anni teorico,
legislatore o semplice beneficiario.
Di qui tutta questa paura per il voto del
28 maggio. E di qui la decisione con cui Renzi sta cercando di evitarlo.
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