Condivido ciò che scrive Guido Scorza e, in
particolare, il rischio che si usi questa “deresponsabilizzazione” di Grillo
per presentare nuove leggi bavaglio. Per cui…a Giuseppe Piero Grillo va il mio
più sentito vaffanculo…
da: Il Fatto Quotidiano – di Guido Scorza
Ha infiammato il web e la scena politica la
polemica scoppiata dopo la notizia che Beppe Grillo si è difeso da una querela presentata, nei suoi confronti,
dal Partito Democratico a seguito
della pubblicazione di un post sul “suo” (il possessivo è tra virgolette
perché è parte del problema, ndr) blog,
sostenendo che non sarebbe lui a gestirlo e che beppegrillo.it è, in realtà,
una community aperta al pubblico; lui, dunque, risponderebbe esclusivamente
dei post a sua firma mentre quello oggetto della querela non lo era.
Apriti cielo.
“La tua difesa è ridicola, se vuoi parlare
a milioni di persone abbine rispetto e assumiti la responsabilità delle cose
che dici e scrivi di fronte a loro e di fronte alla legge”, lo ha incalzato
Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd e firmatario della querela. “Il Pd rosica
perché ha perso il giudizio” (che, in realtà, è ancora alle battute iniziali,
ndr), ha risposto il leader del movimento pentastellato.
Affrontare la questione restando fuori
dalla bagarre politica è difficile ma va fatto perché il blog beppegrillo.it è
uno dei più seguiti d’Europa e, evidentemente, la vicenda è destinata a
rappresentare – comunque vada – un precedente che darà impulso a giudici e –
cosa ben peggiore – governi e parlamenti nel far chiarezza a colpi di nuove
leggi.
Proprio
Beppe Grillo, in passato autore di grandi e belle battaglie contro le dozzine
di leggi ammazza-blog rimbalzate in Parlamento, potrebbe ora
ritrovarsi ad essere ispiratore di una nuova legge che introduce regole
liberticide rispetto alla responsabilità dei blogger per i contenuti pubblicati
sulle proprie pagine, firmati o meno che siano. E’ un rischio che non si può e
non si deve correre.
Il punto di partenza per fugare questo
rischio è tanto semplice quanto importante: libertà di parola fa rima con responsabilità, chi rivendica la prima,
deve essere pronto ad assumersi la seconda. Ogni conclusione diversa non è
sostenibile né giuridicamente, né democraticamente.
Chi
apre e gestisce un blog, in un Paese libero, deve poterlo fare in
modo semplice e immediato, senza anacronistiche registrazioni in questo o quel
registro, senza ritrovarsi sulle spalle obblighi para-editoriali inattuabili –
come quello famigerato di rettifica entro 48 ore che, in passato, si è aggirato
nelle pieghe di decine di proposte di legge come uno spettro – e senza
ritrovarsi alla sbarra per ciò che non ha scritto lui e non ha autorizzato
consapevolmente altri a scrivere pur permettendo a questi ultimi di farlo (vedi
i commenti dei lettori, ndr).
Questo
set di regole minime è baluardo
insopprimibile della libertà di parola online.
Dall’altra parte, però, chi decide di prendere – ed
eventualmente di dare ad altri – la
parola sul web a mezzo blog deve fare la sua parte: deve presentarsi al
pubblico come gestore di quel portale, deve rendersi facilmente raggiungibile,
deve consentire a chi domani potrebbe sentirsi offeso da questo o quel
contenuto e, soprattutto, all’Autorità giudiziaria di identificare l’autore del
contenuto in questione perché risponde dell’eventuale abuso di libertà in danno
altrui. Non serve una legge che lo preveda. E’ semplice questione di senso
civico.
Ovviamente esistono delle eccezioni: l’anonimato, in taluni
contesti, è strumento irrinunciabile di libertà di parola ma si tratta appunto di
eccezioni e quella sulla quale da ore si accapigliano Grillo ed il Partito
democratico non rientra certamente in una di queste. Il post in questione non è
un post-denuncia che il suo autore non avrebbe potuto scrivere per il rischio
di rimetterci la vita ma semplicemente – per quanto prezioso sia ogni idea di
ciascuno di noi – un’opinione, una riflessione di matrice civica, politica,
sociale, un’invettiva come l’avrebbero definita gli antichi romani nel foro.
In questa prospettiva e con il solo intento
di scongiurare il rischio che da questa vicenda derivi il convincimento che
online si può diffamare restando sostanzialmente impuniti “a norma di legge”,
val la pena mettere in fila qualche elemento a proposito del quale, a mio
parere, Beppe Grillo e/o chi al suo posto gestisce il blog hanno sbagliato
almeno sotto il profilo etico e delle regole di buon senso.
Cominciamo dal principio.
Se si accede al blog beppegrillo.it la percezione che si ha è davvero quella di accedere
in un diario online (weblog) dell’ex
comico, oggi leader del Movimento 5 stelle. Nulla informa l’utente che si
tratta, invece, come ha scritto ieri Grillo, di una “comunità online di lettori
e scrittori”. Le informazioni relative al blog, pubblicate in home page o
disponibili altrove, d’altra parte, sono poche e confuse.
Il registro dei nomi racconta che il dominio – che pure è formato
addirittura dal nome e cognome dell’ex comico e, quindi, da uno dei suoi asset
più preziosi sotto il profilo personale, artistico e politico – è stato
registrato nel 2001 da tal Emanuele Bottaro
che da allora, nonostante i fastidi ed i giudizi che ha dovuto subire,
sembrerebbe non aver mai pensato di chiedere a Grillo di riprenderselo. Tutto
assolutamente lecito, naturalmente. Curioso però.
Due elementi presenti in home page, in
basso e in piccolo nel cosiddetto footer, offrono informazioni discordanti ma
anche queste “a norma legge”.
La prima, alla voce “credits” – che più o meno
sta per titolare dei diritti d’autore sui contenuti pubblicati nel blog –
recita: Casaleggio Associati, quasi
a suggerire che l’azienda sia una sorta di editore del blog o, forse, che il
blog è un po’ meno blog e un po’ più giornale online, magari, persino organo di
un movimento politico. A questa conclusione – azzardata leggi alla mano ma non
nella sostanza – sembra spingere anche la frase in alto, sulla testata, che
recita: “Il primo magazine solo online”.
Cliccando su “Privacy”, si apre una classica informativa che recita, nero su
bianco: titolare del trattamento ai sensi della normativa vigente è Beppe Grillo, mentre il responsabile
del trattamento dei dati è Casaleggio
Associati s.r.l.. E’, dunque, per certo, a Beppe Grillo in persona o alla
Casaleggio Associati in qualità di “rappresentante” di Grillo che bisogna
scrivere se si vuol far valere il proprio diritto alla privacy, all’identità
personale o all’oblio rispetto a un qualsiasi contenuto pubblicato sul sito.
Diciamocelo, quindi, una volta per tutte: per una persona normale capire se
beppegrillo.it è un magazine online edito dalla Casaleggio Associati o un blog
personale di Beppe Grillo è un’impresa esageratamente complicata. L’idea
poi che non si tratti né dell’uno né dell’altro ma di una “comunità di lettori
e scrittori online”, come ieri l’ha definita Beppe Grillo, non è davvero facile
evincere da nessuna parte.
E allora ecco lo sbaglio, l’errore, la
sbavatura alla quale sarebbe bene che – vicenda del momento a parte – Beppe
Grillo e i suoi mettessero riparo in fretta: un po’ più di trasparenza sulla
natura di beppegrillo.it, su chi risponde dei contenuti pubblicati, su come
chiederne la rimozione o far valere un diritto. Perché anche dire semplicemente
che dei contenuti firmati si risponde e di quelli non firmati no, se si è in
grado di scegliere discrezionalmente cosa firmare e cosa non firmare e se si pubblica
direttamente o si autorizza qualcun altro a pubblicare un contenuto sulle
proprie pagine non è un bell’esempio da proporre online.
Il punto cruciale di questa vicenda è
questo: se i più grandi lasciano passare
il messaggio che online, dalle colonne di un blog che sembra il proprio
blog, si può pubblicare un contenuto
diffamatorio costringendo poi il diffamato a iniziare una caccia al tesoro
per trovare il vero autore e, quindi, il vero responsabile della diffamazione,
poi sarà difficile difenderci tutti e difendere il web, quando, la prossima volta, Parlamento o governo
proporranno una legge che impone ad ogni blogger di registrarsi in
Tribunale o, magari, di rispondere di ogni bit di informazione in transito
sulle proprie pagine.
Il diritto qui c’entra poco: è questione di
buon senso e, anzi, di senso civico, di rispetto del prossimo, di esempi buoni
dei quali si avverte un disperato bisogno, di imparare ed insegnare che per
chiedere libertà occorre assumersi le proprie responsabilità.
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