sabato 18 marzo 2017

Beppegrillo.it: chi rivendica libertà nei blog deve assumersi anche le responsabilità



Condivido ciò che scrive Guido Scorza e, in particolare, il rischio che si usi questa “deresponsabilizzazione” di Grillo per presentare nuove leggi bavaglio. Per cui…a Giuseppe Piero Grillo va il mio più sentito vaffanculo…


da: Il Fatto Quotidiano – di Guido Scorza

Ha infiammato il web e la scena politica la polemica scoppiata dopo la notizia che Beppe Grillo si è difeso da una querela presentata, nei suoi confronti, dal Partito Democratico a seguito della pubblicazione di un post sul “suo” (il possessivo è tra virgolette perché è parte del problema, ndr) blog, sostenendo che non sarebbe lui a gestirlo e che beppegrillo.it è, in realtà, una community aperta al pubblico; lui, dunque, risponderebbe esclusivamente dei post a sua firma mentre quello oggetto della querela non lo era.

Apriti cielo.

“La tua difesa è ridicola, se vuoi parlare a milioni di persone abbine rispetto e assumiti la responsabilità delle cose che dici e scrivi di fronte a loro e di fronte alla legge”, lo ha incalzato Francesco Bonifazi, tesoriere del Pd e firmatario della querela. “Il Pd rosica perché ha perso il giudizio” (che, in realtà, è ancora alle battute iniziali, ndr), ha risposto il leader del movimento pentastellato.


Affrontare la questione restando fuori dalla bagarre politica è difficile ma va fatto perché il blog beppegrillo.it è uno dei più seguiti d’Europa e, evidentemente, la vicenda è destinata a rappresentare – comunque vada – un precedente che darà impulso a giudici e – cosa ben peggiore – governi e parlamenti nel far chiarezza a colpi di nuove leggi.

Proprio Beppe Grillo, in passato autore di grandi e belle battaglie contro le dozzine di leggi ammazza-blog rimbalzate in Parlamento, potrebbe ora ritrovarsi ad essere ispiratore di una nuova legge che introduce regole liberticide rispetto alla responsabilità dei blogger per i contenuti pubblicati sulle proprie pagine, firmati o meno che siano. E’ un rischio che non si può e non si deve correre.

Il punto di partenza per fugare questo rischio è tanto semplice quanto importante: libertà di parola fa rima con responsabilità, chi rivendica la prima, deve essere pronto ad assumersi la seconda. Ogni conclusione diversa non è sostenibile né giuridicamente, né democraticamente.

Chi apre e gestisce un blog, in un Paese libero, deve poterlo fare in modo semplice e immediato, senza anacronistiche registrazioni in questo o quel registro, senza ritrovarsi sulle spalle obblighi para-editoriali inattuabili – come quello famigerato di rettifica entro 48 ore che, in passato, si è aggirato nelle pieghe di decine di proposte di legge come uno spettro – e senza ritrovarsi alla sbarra per ciò che non ha scritto lui e non ha autorizzato consapevolmente altri a scrivere pur permettendo a questi ultimi di farlo (vedi i commenti dei lettori, ndr).

Questo set di regole minime è baluardo insopprimibile della libertà di parola online.

Dall’altra parte, però, chi decide di prendere – ed eventualmente di dare ad altri – la parola sul web a mezzo blog deve fare la sua parte: deve presentarsi al pubblico come gestore di quel portale, deve rendersi facilmente raggiungibile, deve consentire a chi domani potrebbe sentirsi offeso da questo o quel contenuto e, soprattutto, all’Autorità giudiziaria di identificare l’autore del contenuto in questione perché risponde dell’eventuale abuso di libertà in danno altrui. Non serve una legge che lo preveda. E’ semplice questione di senso civico.

Ovviamente esistono delle eccezioni: l’anonimato, in taluni contesti, è strumento irrinunciabile di libertà di parola ma si tratta appunto di eccezioni e quella sulla quale da ore si accapigliano Grillo ed il Partito democratico non rientra certamente in una di queste. Il post in questione non è un post-denuncia che il suo autore non avrebbe potuto scrivere per il rischio di rimetterci la vita ma semplicemente – per quanto prezioso sia ogni idea di ciascuno di noi – un’opinione, una riflessione di matrice civica, politica, sociale, un’invettiva come l’avrebbero definita gli antichi romani nel foro.

In questa prospettiva e con il solo intento di scongiurare il rischio che da questa vicenda derivi il convincimento che online si può diffamare restando sostanzialmente impuniti “a norma di legge”, val la pena mettere in fila qualche elemento a proposito del quale, a mio parere, Beppe Grillo e/o chi al suo posto gestisce il blog hanno sbagliato almeno sotto il profilo etico e delle regole di buon senso.

Cominciamo dal principio.

Se si accede al blog beppegrillo.it la percezione che si ha è davvero quella di accedere in un diario online (weblog) dell’ex comico, oggi leader del Movimento 5 stelle. Nulla informa l’utente che si tratta, invece, come ha scritto ieri Grillo, di una “comunità online di lettori e scrittori”. Le informazioni relative al blog, pubblicate in home page o disponibili altrove, d’altra parte, sono poche e confuse.

Il registro dei nomi racconta che il dominio – che pure è formato addirittura dal nome e cognome dell’ex comico e, quindi, da uno dei suoi asset più preziosi sotto il profilo personale, artistico e politico – è stato registrato nel 2001 da tal Emanuele Bottaro che da allora, nonostante i fastidi ed i giudizi che ha dovuto subire, sembrerebbe non aver mai pensato di chiedere a Grillo di riprenderselo. Tutto assolutamente lecito, naturalmente. Curioso però.

Due elementi presenti in home page, in basso e in piccolo nel cosiddetto footer, offrono informazioni discordanti ma anche queste “a norma legge”.

La prima, alla voce “credits” – che più o meno sta per titolare dei diritti d’autore sui contenuti pubblicati nel blog – recita: Casaleggio Associati, quasi a suggerire che l’azienda sia una sorta di editore del blog o, forse, che il blog è un po’ meno blog e un po’ più giornale online, magari, persino organo di un movimento politico. A questa conclusione – azzardata leggi alla mano ma non nella sostanza – sembra spingere anche la frase in alto, sulla testata, che recita: “Il primo magazine solo online”.

Cliccando su “Privacy”, si apre una classica informativa che recita, nero su bianco: titolare del trattamento ai sensi della normativa vigente è Beppe Grillo, mentre il responsabile del trattamento dei dati è Casaleggio Associati s.r.l.. E’, dunque, per certo, a Beppe Grillo in persona o alla Casaleggio Associati in qualità di “rappresentante” di Grillo che bisogna scrivere se si vuol far valere il proprio diritto alla privacy, all’identità personale o all’oblio rispetto a un qualsiasi contenuto pubblicato sul sito.

Diciamocelo, quindi, una volta per tutte: per una persona normale capire se beppegrillo.it è un magazine online edito dalla Casaleggio Associati o un blog personale di Beppe Grillo è un’impresa esageratamente complicata. L’idea poi che non si tratti né dell’uno né dell’altro ma di una “comunità di lettori e scrittori online”, come ieri l’ha definita Beppe Grillo, non è davvero facile evincere da nessuna parte.

E allora ecco lo sbaglio, l’errore, la sbavatura alla quale sarebbe bene che – vicenda del momento a parte – Beppe Grillo e i suoi mettessero riparo in fretta: un po’ più di trasparenza sulla natura di beppegrillo.it, su chi risponde dei contenuti pubblicati, su come chiederne la rimozione o far valere un diritto. Perché anche dire semplicemente che dei contenuti firmati si risponde e di quelli non firmati no, se si è in grado di scegliere discrezionalmente cosa firmare e cosa non firmare e se si pubblica direttamente o si autorizza qualcun altro a pubblicare un contenuto sulle proprie pagine non è un bell’esempio da proporre online.

Il punto cruciale di questa vicenda è questo: se i più grandi lasciano passare il messaggio che online, dalle colonne di un blog che sembra il proprio blog, si può pubblicare un contenuto diffamatorio costringendo poi il diffamato a iniziare una caccia al tesoro per trovare il vero autore e, quindi, il vero responsabile della diffamazione, poi sarà difficile difenderci tutti e difendere il web, quando, la prossima volta, Parlamento o governo proporranno una legge che impone ad ogni blogger di registrarsi in Tribunale o, magari, di rispondere di ogni bit di informazione in transito sulle proprie pagine.

Il diritto qui c’entra poco: è questione di buon senso e, anzi, di senso civico, di rispetto del prossimo, di esempi buoni dei quali si avverte un disperato bisogno, di imparare ed insegnare che per chiedere libertà occorre assumersi le proprie responsabilità.

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