domenica 10 aprile 2022

Gino Strada: Una persona alla volta / 3

 


Questo libro sostiene EMERGENCY

In famiglia erano tutti antifascisti. Avevano vissuto sulla propria pelle quel periodo e alla sera, ogni tanto, raccontavano di quando suonava la sirena e dovevano scappare al rifugio, la paura per i bambini, il lavoro in fabbrica per produrre le munizioni, le code delle tessere annonarie. Sono stati i racconti di mia madre e di mia zia a farmi conoscere quegli anni e le ragioni del loro antifascismo convinto. Ragioni molto concrete, tangibili: i fascisti ti tenevano d’occhio se la pensavi diversamente, i fascisti picchiavano, i fascisti avevano voluto la guerra.

Ho scoperto solo più tardi, quando mio zio era ormai morto, che stava con i partigiani. In tanti si davano da fare in quegli anni e anche i miei zii ospitavano qualche compagno che doveva nascondersi o che faceva tappa a Sesto nella fuga verso chissà dove, e questo lo sapevo. Ma mio zio aveva avuto un ruolo molto attivo di cui in casa non si era mai detto niente, neanche a guerra finita, neanche quando io e le sue figlie eravamo più cresciuti.

Milano era stata bombardata e a Sesto tutti convivevano con l’incertezza. Le fabbriche di armi, come la Breda, erano tutte lì e si viveva ogni giorno con la paura che la guerra provoca sempre a chi non può fare altro che cercare di nascondersi.

Una sera, mio padre mi raccontò una storia che per me è ancora la storia della guerra nella mia città. Il 20 ottobre 1944, un bombardiere americano scaricò ottanta tonnellate di esplosivo sul quartiere di Gorla, poco lontano da Sesto. L’obiettivo era per l’appunto la Breda, ma ci fu un errore di trascrizione o di interpretazione delle coordinate in codice e, quando il pilota si accorse di non poter riprendere la direzione giusta, aveva già tutte le bombe innescate. Invece di scaricarle nelle campagne della Bassa, decise di lanciarle lì, su un quartiere abitato. Una delle bombe colpì la scuola elementare Francesco Crispi: morirono 184 bambini, 14 insegnanti, la direttrice della scuola, 4 bidelli e un’infermiera. 614 morti in tutto il quartiere.

Anni dopo, mentre ero in Afghanistan, un mattino arrivò in ospedale un’intera classe, ventitré bambini fra i dieci e i dodici anni. Venivano da Sirobi, a un’ottantina di chilometri da Kabul. Un razzo era caduto sulla loro scuola, ma nella violenza brutale dell’esplosione erano stati più fortunati – erano feriti, ma vivi. Tutti tranne uno. “La guerra non guarda in faccia nessuno”: mio padre mi parlava ancora, come quarant’anni prima.

L’importanza del lavoro, la dignità, la solidarietà verso i vicini, l’idea di far parte di una comunità e che quindi in qualche modo alla comunità si dovesse rendere conto dei propri comportamenti erano pane quotidiano a casa mia.

Per il resto, è stata un’infanzia semplice: non avevamo molto, ma quello che c’era si divideva. Ed ero libero di stare in giro tutto il giorno tra le partite di pallone e qualche scherzo al vicinato.

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