domenica 24 aprile 2022

Gino Strada: Una persona alla volta / 7

 


 

Questo libro sostiene EMERGENCY

 La guerra com’è

Alla fine degli anni ottanta decisi di fare un’esperienza nel­l’ospedale di un Paese povero, in quello che allora si chiamava “Terzo mondo”. Curiosità, voglia di un contesto diverso.

Presentai il mio curriculum alla Cooperazione italiana: “Grazie, dottore, però ci sono circa centoventi persone che stanno aspettando di partire,” mi disse l’impiegato, indicando una pila di curriculum. “Adesso sono centoventuno,” risposi, pensando che non sarei mai partito.

La telefonata, a sorpresa, arrivò due settimane dopo: “È disponibile ad andare a Quetta, in Pakistan, nel­l’ospedale del Comitato internazionale della Croce Rossa di Ginevra? Una missione di sei mesi, ma bisognerebbe partire tra una settimana”.

In Pakistan? Che cosa stava succedendo in Pakistan? Per me era solo il Paese del­l’Himalaya. “Sì,” risposi senza esitazione.

Non potevo sapere allora che quel sì avrebbe cambiato radicalmente la mia vita.

Quetta è la capitale del Belucistan, una regione del Nord-ovest pachistano, vicino alla frontiera con l’Afghanistan. Affollatissima, rumore e polvere, bazaar, cammelli, carretti, Quetta era caos, traffico e umanità. E centinaia di migliaia di rifugiati afgani, fuggiti dalla guerra.

Non avevo mai visto nulla di simile, neanche nei film. Era un altro mondo, brulicante di vita nonostante tutte le difficoltà di una città di frontiera con un Paese in guerra. Non mi sentivo a mio agio, ma neanche a disagio: ero un estraneo prestato a un pezzo di mondo diverso e sapevo che sarei potuto tornare indietro in qualsiasi momento. Il contratto era inizialmente di sei mesi, ma non tutti resistevano a quello che ora chiamiamo “shock culturale” e in caso di difficoltà il rimpatrio era sempre un’opzione.

Sapere di poter scegliere di tornare indietro era ciò che mi faceva sentire diverso da tutta quella gente che si affannava intorno a me, apparentemente senza meta.

Dieci chilometri fuori dalla città c’era l’ospedale, dove sarei andato a lavorare. “Surgical Centre for War Wounded”, centro chirurgico per feriti di guerra, recitava il cartello all’ingresso.

Il Pakistan era in pace, almeno formalmente. Ma l’Afghanistan no. Anche dopo il ritiro delle forze di occupazione sovietiche la guerra era continuata: con i soldi e le armi di alcuni Paesi stranieri, Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita in testa, i “ribelli” mujaheddin combattevano le forze governative del presidente Najibullah, filosovietico.

I feriti venivano dalla regione di Kandahar, un viaggio massacrante, pericoloso, spesso ci mettevano due giorni per raggiungere Quetta. Arrivavano con ogni mezzo: carretti trasformati in ambulanze tirate da asini o cammelli, camion sgangherati, taxi gialli.

Proprio da uno di quei taxi scese una sera un vecchio afgano, davanti al pronto soccorso del­l’ospedale. Portava un patù marrone liso e sorreggeva un bambino pallido, il braccio destro avvolto in uno straccio intriso di sangue. Non ricordo il suo nome, avrà avuto sei, sette anni.

Mezz’ora dopo, in sala operatoria, mi apparve per la prima volta l’orrore: la mano era esplosa e al suo posto c’era una palla disgustosa e bruciacchiata fatta di muscoli e pelle, ossa e vestiti, sangue coagulato e frammenti di plastica. C’è chi la chiama “lesione a cavolfiore”, il che ne descrive bene la forma ma non il contenuto: quel cavolfiore nerastro era la mano destra di un bambino di sette anni. Dovetti amputare l’arto poco sopra il polso.

Quel bambino dalla mano esplosa e lo sguardo rassegnato di suo padre mi rimasero in testa a lungo. Neanche riuscivo a immaginare che potesse succedere a Cecilia o al figlio di qualche amico, ma soprattutto non riuscivo a capire quella quieta sopportazione davanti a un macello simile. Alcuni giorni dopo, a godersi il sole freddo al­l’aperto, c’era un gruppo di bambini, il più grande avrà avuto dodici anni. Indossavano tutti il pigiama azzurro del­l’ospedale, accuditi dalle mamme coperte dal burqa che tenevano in braccio i più piccoli. Molti di loro avevano uno o due arti amputati fasciati dalle bende.

Scattai una fotografia con la mia Leica.

Lo avrei fatto sempre meno negli anni a seguire, fino a smettere del tutto, per non invadere troppo le sofferenze altrui o forse per salvaguardare la mia serenità. Quella foto però l’ho conservata: trent’anni dopo, ancora chiede risposte. 

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