sabato 30 aprile 2022

Guerra Russia-Ucraina: La capanna dello zio Sam

 


da: https://www.tag43.it/ - di Mario Margiocco

Il rapporto tra Nato e Usa e la posizione dell'Ue

Gli Usa, il rapporto con la Nato e la posizione dell’Europa

Quella che Mosca sta conducendo in Ucraina non è una guerra agli Stati Uniti, ma all’Europa. Per questo il Vecchio Continente fa bene a puntare sulla Nato a cui l’appoggio di Washington non manca, nonostante la parentesi di Trump. Ma con giudizio. L’analisi.

Con l’ingresso sicuro di Finlandia e quasi sicuro di Svezia tutta l’Europa, o poco meno, si troverà sotto l’ombrello Nato. Resteranno fuori la Repubblica d’Irlanda, geograficamente defilata, e la Svizzera, insieme alla Svezia portabandiera secolare del neutralismo. Dublino e Berna hanno già accordi di collaborazione con l’Alleanza, e forse verranno rafforzati. C’è quindi una grande fiducia in Europa nell’Alleanza politico-militare più longeva della storia moderna, fiducia equivalente alla sfiducia nei confronti di Mosca. Quest’ultima riconosce come unico interlocutore strategico Washington, questione di rango fra superpotenze, e disprezza Bruxelles. Ma quella che sta conducendo in Ucraina non è una guerra per interposta persona agli Stati Uniti, lontani 8 mila chilometri, ma una guerra all’Europa. Se l’invasione fosse stata quella passeggiata che Vladimir Putin prevedeva, l’angoscia nella Capitali della Ue, e anche a Berna e Dublino, sarebbe palpabile. Siamo noi l’oggetto del contendere, mentre all’America viene contestata solo la presenza sul suolo europeo.

Nonostante Trump, l’appoggio americano alla Nato resta solido

Ma fino a che punto l’Europa può contare sugli Stati Uniti? Sondaggi e voti congressuali recentissimi dicono che l’appoggio americano alla Nato è solido e tale è rimasto nonostante i giri di valzer di Donald Trump. Una visione di più ampio respiro storico ci mette però sull’avviso: non è naturale che tre dozzine di Paesi medi e piccoli, in genere ricchi, abbiano ancora bisogno dopo oltre 70 anni di un protettore terzo. Un sondaggio Gallup condotto negli Usa tra l’1 e il 17 febbraio 2022, alla vigilia dell’attacco a Kyiv, vedeva il giudizio positivo sulla Nato del 46 per cento e negativo, in quanto inadeguata, non sbagliata, del 45 per cento; questo rifletteva molto le divisioni partitiche, con il 70 per cento dei democratici positivi contro il 73 per cento dei repubblicani negativi. Per il 65 per cento comunque l’impegno di Washington nella Nato andava mantenuto costante o aumentato. Dopo l’invasione russa ci sono, fra i molti, i dati del rilevamento Harvard CAPS-Harris che giudicano al 52 per cento troppo blanda la risposta americana, giusta invece per il 33 per cento e troppo dura per il 15. Un sondaggio Brookings’ conferma che per il 51 per cento la risposta di Washington è stata adeguata. Negli ultimi giorni in alcuni sondaggi la punta massima di chi vorrebbe fare di più per l’Ucraina è arrivata al 70. Persino Trump parla ora di “genocidio”, dopo aver avuto una posizione sostanzialmente filorussa fino a non più di un mese fa, e dopo che nella campagna elettorale 2016 si era rifiutato di condannare l’invasione della Crimea nel 2014.

Il consolidamento della lobby pro-Nato al Congresso

Non c’è quindi nessun consistente sentimento anti-Nato, del tipo “sono affari europei, noi stiamone fuori”. Tutt’altro. E questo è anche confermato dai voti congressuali. Il primo pacchetto di aiuti all’Ucraina, una dozzina di miliardi di dollari fra militari e non, passava a metà marzo 361 a 69 alla Camera e 68 a 31 al Senato, dove la maggioranza dei repubblicani votava contro ma con motivazioni varie dovute molto più a questioni di schieramento che di merito. Un voto di metà aprile che applicava all’Ucraina il modello lend-lease creato nel marzo 1941 per gli aiuti alla Gran Bretagna passava con 100 voti, l’unanimità dei senatori. Andando a ritroso di qualche anno si vede come la politica di Trump, nemico della Nato, favorevole al ritiro delle truppe dall’Europa, e con qualche lampo di possibile abbandono dell’Alleanza, non abbia avuto seguito di rilievo nelle scelte della diplomazia e dei militari. Al contrario, al Congresso si è consolidata una lobby pro-Nato, fortemente maggioritaria. Quando nel luglio 2018 Trump al summit Nato di Bruxelles maltrattò gli alleati, fu in parte neutralizzato dallo staff che aveva già pronto un testo finale più consono. Poco dopo fu smentito a Washington dal Senato che approvò 97 a 2 una dichiarazione di sostegno della Nato e da un voto unanime per acclamazione della Camera, con il suo presidente, il repubblicano Paul Ryan, che definiva l’alleanza «indispensabile». Del resto la valutazione del Chicago Council on Global Affairs era, nel 2018, di un appoggio alla Nato da parte del 75 per cento degli americani, e sempre del 75 per cento era valutato l’appoggio nel 2016, prima dell’era Trump, che evidentemente non aveva cambiato molto.

Trump non è mai stato una novità, con buona pace dei nazionalisti di casa nostra

Ma allora, Trump è stato o no un segnale di tempi nuovi? In Europa, e anche in Italia, se ne parlava molto, deprecandoli o guardandoli con speranza, come avvio di una stagione di maggiore autonomia europea. Anche a Roma, da sempre piccolo crogiolo mediterraneo di tentazioni para-nazionaliste, c’era chi accarezzava sogni di più autonomia e chi li cavalcava, a modo suo, tra salviniani e grillini soprattutto, e relativi addentellati russofili, con echi in ambienti radicati della Capitale, civili e militari. Un testo bizzarro, ma significativo del momento, una sorta di historia ad usum Salvini, fu nel 2019 La visione di Trump di Germano Dottori, basata appunto sull’ipotesi che Trump avesse un chiaro disegno politico, fosse una svolta nuova, e che in questa nuova era l’Italia potesse giocare con vantaggio. Ignorata o quasi la dimensione europea, come nazionalismo impone. Trump non è mai stato l’inizio di nulla, essendo uomo di varie abilità ma di eccessiva ignoranza. Numerose realtà sono cambiate, certo, e Trump le ha cavalcate, ma di suo è stato ed è piuttosto l’epigono, non si sa fino a che punto cosciente, di una lunga tradizione americana di nativismo, di populismo cioè attacco alle élite ed iperesaltazione del common man, poco informato su tutto ma pronto a discutere con sicurezza di tutto, una specialità americana, avendo come bussola l’opposto di quanto detto prima.

Il vecchio ritornello dell’America First

Questo mondo, da sempre presenta nella civic culture americana come è sempre presente anche altrove silente o urlante, riusciva a regalare al Paese un secolo fa una generazione di isolazionismo diplomatico (ma non finanziario, l’odiata Wall Street continuava la sua espansione mondiale), fino a Pearl Harbour, dicembre 1941. America First si chiamò la loro ultima creatura, per tenere gli Usa fuori dalla guerra, e America First è il motto di Trump, ieri e oggi. Da lì viene Trump, tutto un rimuginare del passato, poco studiato, e senza visioni del futuro. E questa è la sua forza con l’elettorato più brado, che gli assomiglia. L’ex presidente, che continua ad agitare il mito e la balla dei brogli elettorali e non si vergogna dell’assalto al Congresso dei suoi fedelissimi a inizio gennaio 2021, incarna perfettamente il messia agognato descritto da H.L.Mencken, principe del giornalismo americano di un secolo fa. «In una grande e gloriosa giornata», scriveva Mencken nel luglio 1920, «la gente comune del Paese potrà finalmente realizzare un desiderio profondo del cuore, e la Casa Bianca potrà fare sfoggio infine di un perfetto imbecille».

L’Europa punti sull’Alleanza Atlantica ma con giudizio

L’Europa deve puntare le sue carte strategiche sulla Nato, non c’è alternativa. Ma con giudizio. Un rafforzamento militare del braccio europeo, via Ue, non potrà che giovare all’Alleanza, e aumentarne il valore agli occhi americani. Ma due realtà non vanno dimenticate. Il mondo di oggi non è quello del 1949, quando nacque l’Alleanza, anche se dopo il febbraio 2022 l’Europa le rassomiglia un poco. E, secondo, non vanno dimenticate le difficoltà che accompagnarono a Washington la Vandenberg Resolution del giugno del 1948, impegno internazionalista ma nel rispetto delle prerogative costituzionali (solo il Congresso  può dichiarare la guerra), e la nascita della Nato l’anno seguente. Una mossa a due tempi studiata per evitare che il progetto Nato finisse nel tritacarne delle Presidenziali del novembre 1948.

Il nodo dell’Articolo 5

Nessuno può escludere che qualche epigono di Trump o simile cerchi di fare della Nato, chissà quando e se vi fosse una breccia nel sostegno del pubblico, il suo bersaglio elettorale. In particolare l’articolo 5, l’impegno cioè a scendere in guerra in difesa di un Paese membro aggredito. Non è un automatismo, ma un impegno solenne. Lo stesso Segretario di Stato Dean Acheson, presentando il Trattato agli americani, ribadiva nel 1949 che le regole costituzionali restavano intatte, e solo il Congresso e non un presunto automatismo poteva decidere la guerra. Nonostante questo il rischio di qualcuno che sostenga l’incostituzionalità dell’articolo 5, cosa già fatta ripetutamente, esiste sempre. L’Europa farebbe quindi bene a seguire la scena americana con una attenzione e un impegno non dissimile da quello usato dai britannici 110 e 85 anni fa, negli anni precedenti la Prima e la Seconda Guerra mondiale, per far sì che le ex colonie avessero sempre ben presente la comunanza di interessi con la vecchia madre patria. Funzionò per Londra, e dovrebbe funzionare ancora per Londra e per Bruxelles. Dopotutto Washington ha varcato l’Atlantico, in armi, due volte, per impedire che un potere ostile dominasse l’Europa. Non siamo a questo punto, ma un passo in questa direzione è stato fatto.

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