mercoledì 13 aprile 2022

Gino Strada: Una persona alla volta / 4

 


Questo libro sostiene EMERGENCY

Avevo fatto il liceo classico per scelta, ma a scuola mi interessavano soprattutto le discipline scientifiche. La medicina è almeno in parte una scienza e mi affascinava il lavoro del medico perché ha a che fare direttamente con gli esseri umani. Scelsi la facoltà di Medicina e poi la specializzazione in Chirurgia d’urgenza con il leggendario professor Vittorio Staudacher.

“Il Professore”, come lo chiamavamo – la maiuscola c’era di sicuro –, aveva fondato al Policlinico di Milano il primo reparto di Chirurgia di urgenza in Europa. Erano anni di grande vitalità al Policlinico, con tanti medici che stavano rivedendo l’approccio ai malati per cure sempre più specializzate ed efficaci. C’erano grandi cambiamenti, penso ad esempio alla creazione della medicina di urgenza, con il professor Randazzo, o al reparto di anestesia, con il professor Damia e tutto il gruppo di colleghi che sono diventati amici: Martin, Antonio, Valter…

Voglia di fare, di sperimentare, di dare il massimo: la medicina non era ancora intrappolata tra Drg e rimborsi, i medici erano medici, talvolta scienziati, certamente non manager.

Staudacher era un grandissimo clinico. Klínē in greco significa “letto” e “clinica” è la capacità di visitare il malato sdraiato, a letto, di toccarlo per capire quali sono i suoi problemi ancora prima di fare esami strumentali costosi e a volte inutili. Anzi, spesso senza neanche farli.

Bastava che Staudacher guardasse un paziente, che gli appoggiasse una mano sull’addome, per fare una diagnosi a cui non aveva pensato nessuno di noi. E che ovviamente era quella giusta.

Una capacità straordinaria che cercai di apprendere da lui e che mi è tornata utilissima in molti ospedali del mondo dove spesso non c’è modo di fare indagini sofisticate, ma solo di guardare un paziente in faccia e fargli le domande giuste. Perché, anche se non ci siamo più abituati, la medicina è innanzitutto un rapporto tra un essere umano e un altro essere umano.

Erano anni caldi nelle università di tutta Italia. Mi impegnai da subito nel Movimento studentesco con gli studenti di Medicina. Facevamo riunioni su riunioni, assemblee, passavamo nottate a scrivere “Medicina al servizio delle masse popolari”, il giornale che distribuivamo in università, e centinaia di volantini per la manifestazione del sabato. Perché non c’era sabato che non fossimo in piazza, un appuntamento fisso per tutti. C’erano diritti da difendere e da rivendicare, né l’Argentina né il Vietnam erano troppo lontani. Anzi. Era proprio il fatto che fossero lontani a spingerci a lottare: se non noi, chi lo avrebbe fatto? Avevamo una convinzione: i diritti sono di tutti per definizione.

Come potevamo rivendicare i diritti di noi studenti senza manifestare contro la guerra in Vietnam? Come potevo preoccuparmi del lavoro di un italiano e ignorare la sofferenza di un altro essere umano, anche se stava dal­l’altra parte del pianeta?

Quegli anni fecero sentire a me e a tanti altri che eravamo parte del mondo, una parte attiva, e potevamo cambiarlo. Sono di quel periodo gli amici più veri, che sono rimasti una specie di famiglia: Carlo, la persona più vicina all’idea di umanista che possa avere, Ennio ed Emi, non provo neanche a definirli, Antonio, allenatore della Nazionale di atletica, Rudy, giornalista, Roberto, medico, Bau, Max, Nico, architetti, designer, grafici… creativi, insomma. Quasi tutti di origini sestesi, adesso che ci penso. Sarà perché siamo cresciuti in una comunità operaia e solidale che, alla fine, della comunità abbiamo continuato a occuparci in qualche modo.

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