domenica 17 aprile 2022

Gino Strada: Una persona alla volta / 5

 


Questo libro sostiene EMERGENCY

Il Professore guardava con simpatia il Movimento studentesco. Naturalmente ne era fuori: era un aristocratico, di fatto e di carattere, e le aule piene di rivendicazioni e di fumo non erano il suo ambiente. Eppure si capiva che ascoltava quello che avevamo da dire.

Venne a un’assemblea una volta, elegante come sempre nel suo dolcevita chiaro. L’Aula magna di Medicina ammutolì intimorita, me compreso, e lui si sedette in un angolo ad ascoltare fino alla fine. Gliene fui sempre riconoscente.

Non so se fu per questo impegno politico o per l’avidità con cui seguivo le sue lezioni, ma mi prese in simpatia. Mi scelse come uno dei suoi aiuti, il che significava disponibilità h24, ma anche una possibilità di imparare che non aveva uguali. Passavo in ospedale o in sala operatoria una grande quantità di ore tutti i giorni, non mi stancavo mai di vederlo al­ lavoro. Fremevo nel­l’attesa di impugnare io il bisturi.

Mi disse che gli piacevo perché non ero un leccaculo: me ne ero fatto un punto d’onore in un ambiente “molto competitivo” come quella scuola di specialità.

Piacergli non significava essere trattati con i guanti, anzi. Nei momenti più tesi del Movimento, appena mi vedeva al lavandino pronto per lavarmi, urlava: “Cane, cagnaccio! Ma perché mi fate aiutare dai terroristi?”. Era un suo modo di mettermi in guardia dal non oltrepassare un certo limite. Non ci avevo mai neanche pensato, a oltrepassarlo.

La medicina mi appassionava, ma la chirurgia era quello che volevo fare davvero. Mi somigliava, dopotutto. Davanti a un problema, avevo bisogno di fare. Era una sfida continua dal punto di vista tecnico: guardavo il Professore, imparavo procedure nuove, studiavo, studiavo, studiavo perché sentivo che la sala operatoria era il mio ambiente naturale. Io che mi annoiavo facilmente, potevo stare dodici ore di fila in camice, guanti e mascherina senza neanche accorgermene. Ero già quel che si dice “un animale chirurgico”.

A un certo punto, il Professore mi propose di andare negli Stati Uniti. Iniziavo a soffrire la competizione interna e mi vedeva scalpitare per imparare qualcosa di nuovo. C’era la possibilità di andare a Pittsburgh e Stanford a studiare i trapianti di cuore, una grande occasione per imparare a fare una cosa nel posto dove si faceva meglio in assoluto.

“Non vedo l’ora,” dissi. Il primo viaggio me lo regalò lui. Già a Milano avevo iniziato a mettere il naso nel laboratorio di chirurgia sperimentale con i babbuini e i maiali, e finalmente sarei andato a studiare come si faceva nel posto che fino ad allora mi era sembrato solo un sogno lontano.

Nel frattempo avevo sposato Teresa ed era nata Cecilia, ma partii da solo. Loro rimasero in Italia e mi raggiungevano per lunghi periodi durante le vacanze, per recuperare un po’ di vita insieme nei grandi parchi americani.

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