mercoledì 6 aprile 2022

Gino Strada: Una persona alla volta / 2

 


 

Questo libro sostiene EMERGENCY

 Un buon posto dove diventare grandi

Sono un chirurgo. Una scelta fatta tanto tempo fa, da ragazzo.

Non c’erano medici in famiglia, ma quel mestiere godeva di grande considerazione in casa mia. “Fa il dutur, l’è minga un laurà,” diceva mia madre, “l’è una missiùn.” Un’esagerazione? Non so, ma il senso di quella frase me lo porto ancora dentro, forse mia madre era una inconsapevole ippocratica.

Sarei stato il primo a laurearmi in famiglia, una famiglia di operai. Per undici anni avevamo condiviso l’appartamento con due zii e due cugine, Anna e Mariangela, “la Mari”, che per me sono state praticamente sorelle.

La zia Gianna aveva rinunciato a una camera di casa sua per permettere a mia madre di mettere su famiglia in un periodo in cui i miei non potevano pagare l’affitto di un appartamento solo per loro. Si sposarono un 7 giugno, lo stesso giorno del mio matrimonio con Simonetta, tanti anni dopo.

Appena i miei hanno avuto qualche soldo in più, ci siamo trasferiti in due case vicinissime. Vivevamo nello stesso condominio, divisi da un pavimento e un soffitto perché la nostra ormai era di fatto una famiglia unica, che condivideva tutto non più per bisogno ma per affetto.

Vivevamo in via Lacerra, uno dei quartieri più popolari di Sesto San Giovanni. La chiamavano la “Stalingrado d’Italia”: le grandi industrie, gli operai, il partito, il passato partigiano.

A Sesto si faceva politica per forza. Erano gli anni del­l’immediato dopoguerra, c’era in giro aria di ricostruzione, lo capivamo anche noi bambini, che oltre ai fumi delle acciaierie respiravamo etica del lavoro, responsabilità, senso di comunità.

Sesto era un buon posto dove diventare grandi. Avevo gli amici del cortile e del campetto, come tutti i bambini di allora. Una banda, con la quale siamo rimasti affiatati negli anni, dai banchi di scuola a oggi.

Eravamo sempre fuori, mia madre aveva rinunciato a essere apprensiva anche se quando ci vedeva tutti insieme urlava dalla finestra un “Me racumandi!” per stare più tranquilla. Mio zio Gino, invece, teneva bordone, ci copriva e ci coinvolgeva in qualsiasi attività gli venisse in mente. La pesca di frodo, ad esempio.

Mi caricava sulla canna della bici e poi andavamo al fiume. Non tornavamo mai a mani vuote, anche se lo zio Gino era sempre un po’ evasivo con mia madre e con la zia sulla provenienza del pesce. Una volta che venne intercettato dalle guardie mentre tornava da una pesca di frodo, si difese così: “Mì, pescà de sfros? Ma se g’ho gnanca la licensa!”. Lo zio Gino è stato l’uomo più sfacciato e divertente che abbia conosciuto nella mia vita.

Mio padre era più riservato. Si dedicava al lavoro – era operaio alla Breda –, alla lettura e alla famiglia. Quando non lavorava mi costruiva giochi di legno che usavamo insieme fino a perdere il senso del tempo, ore leggere, bellissime.

È morto di leucemia in pochi mesi quando avevo vent’anni. Passai quella sera al cinema, non ricordo neanche a vedere cosa, un dolore troppo grande per affrontarlo nel viavai dei parenti e degli amici che venivano in casa per le condoglianze.

In questo periodo, mi torna spesso in mente, Mario si chiamava. Mi è capitato di sognarlo o di sentirmelo accanto, una sensazione dolcissima che non ricordo di aver mai provato in sua presenza. Forse ci vuole del tempo per capire l’amore.

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