da: Il Fatto Quotidiano
Il
presidente dell'Inps ha spiegato che l'idea di permettere l'uscita anticipata
dal lavoro a fronte di un taglio dell'assegno non è sostenibile per i conti
pubblici. Bocciata anche la proposta di Cesare Damiano e Pier Paolo Baretta già
depositata in Parlamento, che determinerebbe un buco di 8,5 miliardi
L’introduzione di una maggiore flessibilità
dell’età di pensionamento può arrivare a costare, nel 2019, oltre
10 miliardi. Per la precisione 10,6. Un peso decisamente eccessivo per le casse
dello Stato. A fare i conti è stato il presidente Inps, Tito Boeri, che ha bocciato l’idea di rendere meno rigidi i paletti fissati dalla
legge Fornero per l’uscita dal lavoro annunciata a fine maggio dal premier Matteo Renzi, e dal
ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan sulla scia di
quanto auspicato dal titolare del Lavoro Giuliano Poletti. Idea ribadita mercoledì
mattina dal sottosegretario all’Economia Pier Paolo Baretta, che ha confermato
come l’esecutivo intenda “procedere ad alcuni aggiustamenti di natura
previdenziale”, con un’idea di “flessibilità in uscita che permetterà anche un
recupero dell’occupazione giovanile”.
L’economista, in audizione alla Camera,
ha fatto presente che modificare la normativa come
prefigurato da Renzi (“Se una donna a 62 anni preferisce stare con il nipotino rinunciando
20-30 euro bisognerà permetterglielo”, le sue parole) sarebbe insostenibile per
la fiscalità generale. Non solo: rischia anche di creare forti distorsioni. “In
nome di questa filosofia abbiamo avuto una eredità pesante per la finanza
pubblica” già in passato, ha ricordato il docente. Dunque meglio evitare di
ripetere l’errore.
Nulla in contrario se il principio della “staffetta generazionale”, cioè mettere a riposo un lavoratore anziano a fronte di una riduzione dell’assegno
previdenziale, magari con l’obiettivo
di far assumere al suo posto un
giovane, viene applicato “a livello di contratto aziendale o di settore e se ben
studiato e congegnato”. Ma “non facciamolo mai a livello nazionale per
legge”, è la richiesta di Boeri. Che ha stimato
appunto in 10,6 miliardi l’esborso
necessario per consentire l’uscita anticipata rispetto all’età di
vecchiaia a partire dai 62 anni di
età anagrafica con 38 di contributi
o con 35 anni di contributi e almeno
65 di età, la cosiddetta “quota 100″. Visto che dal 2016 saranno necessari 42 anni e 10
mesi per uscire prima dell’età di vecchiaia, il sistema delle quote
introdurrebbe un ammorbidimento eccessivo. In più il meccanismo proposto
rischia di vincolare la “disponibilità del singolo individuo, che può essere
condizionata a questioni ereditarie” con “il padre che lascia il posto al
figlio”.
Il presidente dell’istituto nazionale di
previdenza ha anche quantificato il costo di una proposta alternativa già
depositata in Parlamento da Cesare
Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera, e dal
sottosegretario Baretta. La loro idea consiste nel permettere l’uscita dal lavoro a 62 anni con 35 di contributi, con una penalizzazione
del 2% l’anno, a chi ha maturato un importo di pensione pari ad
almeno 1,5 il minimo. Questa opzione, se tutti i potenziali beneficiari
scegliessero di beneficiarne, determinerebbe un buco di 8,5 miliardi. Infatti, ha spiegato Boeri, la
riduzione dell’assegno è “inferiore a quello che sarebbe necessario” per
una neutralità di lungo periodo sui conti pubblici.
Via
libera, invece, all’estensione della platea dell’opzione donna, quella che permette alle
lavoratrici di andare in pensione a 57 anni e 3 mesi con 35 di contributi se
accettano che sia calcolata con il metodo contributivo. Secondo
Boeri si tratta di una possibilità “condivisibile” perché “tende ad
abbracciare il sistema contributivo, che verrà riservato a generazioni che non
avevano 18 anni di contributi nel 1996″. Di conseguenza l’economista si è detto
favorevole anche a rivedere al ribasso gli anni di contribuzione necessari per
poter accedere all’opzione, in modo da tener conto del fatto che “nel
lavoro femminile sono molto frequenti le interruzioni”.
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