da: la Repubblica
Torniamo sul sostegno: cioè sugli alunni, i genitori,
gli insegnanti di sostegno (e non) e le autorità competenti.
Sapevo di toccare un nervo molto sensibile, le reazioni
al mio articolo del 21 maggio sono state molte e accese. Questo mostra prima di
tutto che non c’è stata finora un’informazione chiara e una discussione
adeguata, e ce n’è tanto più bisogno dal momento che la “Buona Scuola” chiede
una delega al governo per riformare il sostegno nei successivi 18 mesi. Le
reazioni mi hanno aiutato a farmi un’idea più ampia, e a interpellare più
stringentemente le autorità competenti. (Non terrò conto delle accuse
vicendevoli di voler umiliare o strumentalizzare i bambini disabili). Una prima
questione riguarda la possibilità di passaggio (consentita oggi dopo 5 anni)
dal sostegno all’insegnamento “normale” delle materie.
Chi vuole abolirla ha a cuore la continuità del
sostegno (in realtà, in molte situazioni attuali, anche un paio d’anni continui
sarebbero un passo avanti) e depreca che si scelga il sostegno come un accesso
più facile alla docenza, con la riserva di lasciarlo appena possibile. Il
proposito è giusto, ma è dubbio che lo
si raggiunga imponendo di scegliere
irreversibilmente la carriera del sostegno dall’università. Candidati senza
vocazione continuerebbero a sceglierla se vi vedessero una via più accessibile,
e nemmeno al miglior formazione riuscirebbe a prevalere sulla loro renitenza:
diventeranno cinici, o maltrattatori. Una selezione iniziale che badasse alla
doppia qualità della vocazione e della formazione garantirebbe molto meglio, e
gli eventuali passaggi, comunque limitati, si riserverebbero a insegnanti
provati da un lavoro che, affrontato degnamente, è davvero emotivamente
coinvolgente e fisicamente faticoso. Non ci sono dati esatti su quanti sono
oggi i passaggi dal sostegno all’insegnamento della materia dopo i 5 anni
(troppi, comunque, benché i numeri Istat siano più rassicuranti); oltretutto
c’è anche il passaggio inverso, cioè la frettolosa riconversione di insegnanti
“ordinari” – di educazione fisica, per esempio restati senza incarico, e
dirottati al sostegno. Nei mestieri che si prendono cura della debolezza
–medici e infermieri, badanti, assistenti sociali, e genitori e insegnanti di
sostegno… – ci sono le persone che possono fare più bene e più male. Ci sono
genitori che sperano dalla scuola miracoli che la scuola –né altri non può
fare. Ci sono genitori disperati che fanno bocciare i figli, che la scuola li
tenga più a lungo, e dopo la maggiore età temono il vuoto. Genitori che pensano
che il sostegno e la sua riforma siano loro competenza – e non anche di
insegnanti e di pedagogisti – e temono un sostegno fatto “contro le famiglie”,
un po’ come avvenne con l’applicazione della legge Basaglia. E poi, succede
pressoché a ciascuno di fare i conti, per un accidente o una malattia, anche
con la propria debolezza.
Oggi i docenti di sostegno sono 130 mila, 95 mila dei
quali di ruolo. Veniamo al punto più esposto: la ventilata separazione delle
carriere di sostegno e insegnamento della materia, paventata come una “
medicalizzazione” del sostegno. Ho cercato le opinioni delle associazioni di
disabili e familiari, degli insegnanti, dei pedagogisti e dei singoli con
esperienze e idee da avanzare. Sommariamente si dividono così: le principali
Federazioni rappresentanti di disabili, Fand e Fish, pensano che solo la
separazione assicuri al sostegno la formazione specializzata (ma non
“monovalente”, su un’unica patologia, precisa a loro nome Salvatore Nocera) che
le disabilità dei ragazzi esigono; altri chiedono all’opposto che sostegno e
insegnamento restino intercambiabili, e anzi lo siano di più, come vorrebbe
Dario Ianes, che punta sulla formazione all’inclusione di tutti gli insegnanti,
con una minoranza di “esperti” itineranti. Altri ancora, come la pedagogista
Marina Santi o Daniela Boscolo, temono che nell’una e nell’altra visione
l’insegnante di sostegno dimagrisca fino a scomparire, assimilato nel primo
caso all’operatore della patologia, nel secondo al docente ordinario. Una terza
posizione, come Evelina Chiocca del Ciis o il Comitato Insegnanti Bis-abili,
punta sulla “cattedra mista”, cioè – semplifico – a una turnazione fra docente
della materia e del sostegno (il quale è a sua volta formato in una materia).
Il sottosegretario Davide Faraone, che col suo staff è particolarmente
impegnato su questo cruciale capitolo della “Buona Scuola”, è intervenuto, dopo
il mio articolo, per negare il rischio di “medicalizzazione”, e la stessa
separazione: “I ruoli tra i docenti curricolari /delle materie, cioè, nota mia/
e di sostegno dovrebbero essere intercambiabili…”. Essendosi fatto tutto più
chiaro e insieme più confuso ai miei occhi, ho proposto i vari interrogativi
che avevo raccolto allo stesso Faraone e ai suoi collaboratori. Faraone mi ha
esposto una nuova posizione: “Ci proponiamo di agire non su un doppio ma su un
triplo binario: rafforzando la preparazione specifica anche degli insegnanti
della materia, la cui sinergia col sostegno è decisiva per evitare l’isolamento
dei ragazzi; conservando e rafforzando il sostegno; e affiancando agli uni e
agli altri degli operatori con una formazione peculiare per le patologie più
impegnative, che tuttavia restino docenti e non sanitari”. La condizione oggi
più evocata è l’autismo, e anche Faraone riferisce la propria esperienza di
padre. “Così disastrosa che abbiamo trasferito la nostra bambina a una scuola
privata, dove oltretutto può seguirla anche la sua operatrice, e i risultati
sono confortanti: ma se noi possiamo permettercelo, tante altre famiglie non
possono”. Dice anche che le contrapposizioni sul sostegno, aspre come sono,
possono rivelarsi largamente dovute a fraintendimenti e diffidenze, anche sul
tema della “cattedra mista”. E che la delega da votare con la legge vuol dire
davvero un periodo sufficiente a confrontarsi sul tema senza vincoli
insuperabili, compresa la proposta di legge a firma sua e di altri e le diverse
opzioni di associazioni, sindacati e singoli. Gli dico che mi auguro il
contrario, ma il suo “triplo binario” rischia di apparire un paradosso o un
espediente, e di tirargli addosso i sospetti di tutte le parti. E che comunque
prevede più soldi, e un certo ottimismo: l’operatore che sia, in una sola
persona, prima docente, poi docente di sostegno, e infine formato su una
patologia, ha qualcosa di leonardesco. I soldi in più li abbiamo messi, dice. E
tutta questa discussione è ancora pregiudicata da una condizione che prima o
poi andrà affrontata: quella per cui oggi ci sono più o meno 185 classi di
concorso per gli insegnanti, figlie di quella proliferazione di titoli di
materie universitarie che servì a moltiplicare, se non le baronie, le
sottobaronie.
Bisogna augurarsi che la discussione si faccia
costruttiva, e riduca il bianco della delega in bianco richiesta nella legge.
Ho ricevuto il diario di un’insegnante: “Quando era necessario ho accompagnato
l’allieva in bagno, ho aspettato accanto a lei che facesse la cacca e poi l’ho
pulita… Ho preparato schemi, riassunti e verifiche di informatica, matematica,
fisica, chimica, scienze della terra, biologia, scienze motorie, filosofia,
italiano, storia, storia dell’arte, inglese, discipline geometriche, discipline
progettuali. Dal livello prescolare al livello quinta liceo”.
Quanto alla “Buona Scuola”, se al prossimo passaggio
tramontasse la chiamata diretta che così inopinatamente era sorta, si potrebbe
suonare, se non le campane, la campanella.
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