domenica 18 dicembre 2022

Giulio Santagata con Luigi Scarola: L’ira del riformista / 2

 

  

Mia moglie dice che invecchiando mi sono inacidito, che sono sempre più spesso di cattivo umore, che mi incazzo per niente.

Forse ha ragione, ma sta di fatto che ci sono sempre più cose che mi producono un moto di vera e propria ira e di conseguenza mi arrivano alla mente pensieri che non esito a definire “cattivi”. Pensieri di cui dovrei anzi devo vergognarmi. Il fragore della folla che assalta i cancelli dei più vari palazzi d’inverno, lo ssciunk! freddo e definitivo della ghigliottina, un anacronistico “colpirne uno per educarne cento”.

Per fortuna una solida educazione riformatrice e democratica cancella immediatamente tali pensieri come fossero fantasie erotiche buone solo per alimentare l’industria del porno.

Eppure, non si cancellano i moti di rabbia che mi prendono di fronte all’insopportabile disuguaglianza che connota la nostra società, davanti all’intollerabile semplificazione dei problemi, alla stupidità del politicamente corretto, alla mercificazione di temi come la sostenibilità ecc.

La rabbia rischia di tramutarsi in ira funesta (vedi il Pelide Achille) soprattutto nel constatare che il nobile sentimento della rabbia capace di spingere l’uomo/gli uomini a cercare risposte e soluzioni cede il passo alla indifferenza, alla assuefazione e, non trovando uno sbocco, si trasforma sempre più spesso in invidia.

Mi fa imbestialire vedere i tanti fare scudo con le loro dichiarazioni dei redditi da 30.000 euro lordi contro ogni tentativo di rendere più equo il nostro sistema fiscale. Non sopporto che si sia trasformato il tema della crisi ambientale in uno strumento di marketing, che ci si accontenti dei due euro donati con un messaggino evitando così di misurarsi veramente col tema del sottosviluppo e via dicendo. In queste pagine segnalerò le tante cose che mi procurano un sentimento d’ira e cercherò di raccontare come, per me, sia possibile utilizzare questa rabbia in modalità positive per cercare soluzioni democratiche e progressiste.

Ancora alcuni paletti utili a comprendere il mio tentativo: anzitutto rabbia e non indignazione. L’indignazione parte da un giudizio morale e richiede che l’indignato ritenga di essere moralmente superiore a chi lo fa indignare. L’indignazione spesso richiede solo di essere manifesta, di firmare un appello, di mandare un tweet; l’indignazione è consolatoria ed esaurisce i nostri doveri civili ed etici.

La rabbia è molto più scomoda perché non ti consola e continuamente ti interroga su cosa pensi di fare.

Un fare che non può essere individuale, che richiede condivisione e partecipazione, conoscenza e passione. Insomma, la rabbia reclama a gran voce un ruolo decisivo per la politica.

Dicevo che, se non trova un terreno su cui sfogarsi, la rabbia tende a trasformarsi in invidia e spesso in odio.

La cosa più diffusa è l’invidia per i ricchi e per i famosi ma nei loro confronti non scatta il processo in cui l’invidia si trasforma in odio. L’odio è riservato ai più simili a noi, ai più vicini che possiamo accusare di portarci via una parte delle opportunità che ci farebbero assomigliare ai ricchi e famosi.

Odiamo gli extracomunitari che ci rubano il lavoro e la casa, odiamo i gay perché sono una consorteria che li favorisce in tutto (ovviamente questo non vale per i gay di successo), odiamo i politici perché rubano ma amiamo gli evasori perché rubano ma sono furbi.

Io non invidio e non odio nessuno ma mi manda in bestia vedere come sia facile sottrarre a chi ne avrebbe motivo il bersaglio della sua rabbia e sostituirlo con una più comoda accettazione o uno sterile odio.

Paradossalmente mentre si consuma un progressivo distacco tra politica e cittadini cresce l’urgenza di trovare un modo per evitare che questo processo degeneri in un’insanabile rottura tale da mettere in dubbio la tenuta della democrazia o almeno della democrazia liberale.

Allora la politica deve ritrovare la capacità di trasformare la rabbia individuale in “rabbia civile” individuando terreni comuni su cui i singoli possano applicare positivamente la loro disponibilità a mettersi in gioco.

In fondo in queste pagine ho provato ad applicare alla mia personale rabbia una serie di ipotesi di risposta politica senza la pretesa di farne un programma, ma con la speranza di indicare un metodo di lavoro, quasi un percorso psicoanalitico che da personale possa diventare parte di un processo collettivo.

Stavamo correggendo le bozze con l’aiuto della casa editrice quando i riformisti italiani hanno consegnato il governo del Paese alla destra. Non a una coalizione di conservatori, ma proprio al partito più di destra dell’intero schieramento.

Perdere le elezioni ci sta, fa parte del gioco democratico e per questo un riformista non si può adirare, ma il modo con cui abbiamo perso… quello sì che fa incazzare.

Tralascio di sottolineare il deficit cronico di elaborazione e di offerta di una politica “di sinistra” che è il motivo che mi ha spinto a scrivere queste pagine. Questo è il motivo profondo della sconfitta, ma non possiamo pensare di scendere in campo senza aver messo insieme una squadra, come se a calcio si potesse vincere schierando sette giocatori contro undici, non vinci nemmeno con sette Maradona e francamente i fuoriclasse scarseggiano nel nostro campo.

Già il campo che speravamo largo si è andato restringendo per errori tattici, ma soprattutto perché ancora una volta l’interesse di parte ha prevalso su quello generale. Bastava ispirarsi a De Gregori: “Un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo, dalla fantasia”. L’elettore non ha individuato nessuna di queste qualità nelle forze disperse del riformismo italico.

E adesso? “Che fare?”, come si chiedeva Lenin. Certamente non basta cambiare l’allenatore ma ci vogliono coraggio, fantasia e altruismo per ricostruire un’identità e un gioco e per tornare a vincere. Un percorso lungo che non possiamo demandare alle nomenclature schiave di un inscalfibile istinto di conservazione, ma che deve vedere in cammino i tanti sinceri riformisti che vogliono dare un contributo a veder affermate le loro idee per un cambiamento possibile e necessario.

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